A inizio luglio stavo preparando l'esame di filologia italiana. Fra le altre cose, in programma, c'era tutto l'inferno di Dante. L'unica persona con un po' di tempo e un bel po' di pazienza per ascoltarmi era mia madre. Lei tornava da lavoro nel pomeriggio e sapeva che verso le cinque mi sarei presentato da lei con il libro di Dante, o con lo schema dei canti. Il canto da analizzare lo sceglieva lei, o aprendo a caso l'inferno oppure, soprattutto dopo un po' di tempo dopo (quando il caso sceglieva sempre più spesso canti già letti), leggeva lo schema e con tono quasi pettegolo mi chiedeva di parlare di qualche tipo di peccatore in particolare. Quindi iniziavo a parafrasare e spiegare e lei ascoltava volentieri, ponendo domande di tanto in tanto. A volte dovevo inseguirla con il libro nelle camere in cui andava, cercavo di intuire se mi stesse ascoltando mentre metteva a posto o cucinava; altre volte, ed ero molto più contento, si sedeva vicino a me e rispondeva al telefono solo per dire "ti richiamo dopo". Così dalle cinque alle sette, per due settimane, c'era la lectio dantis.
Una volta finito di parlare dell'inferno, sudato e appicicoso, andavo in terrazza a fumare. In condominio stavano facendo i lavori, quindi il suo perimetro era circondato di impalcature. C'erano impalcature anche su un lato,quello che sopra ha la soffitta, del mio terrazzo, e di mattina ci camminano gli operai, lasciando qua e là gli oggetti che hanno usato: una scala, una scopa, una bottiglia d'acqua... I vasi che stavano in terrazza ora sono tutti ammucchiati al centro, per lasciar libero il perimetro interno. Quindi, una volta finito di parlare di Dante, sudato e appiccicato, mi sedevo sul pavimento sporco del terrazzo, mi appoggiavo con la schiena sul muro senza intonaco e fumavo una sigaretta. Mia madre intanto aveva iniziato a fare le telefonate che aveva lasciato in sospeso e fra poco uscirà in terrazza, con le mani occupate da qualche oggetto, la spalla che spinge il telefono sull'orecchio, e mi lancerà un'occhiata allo stesso tempo bonaria e di rimprovero perché sto fumando. Certe mamme non accettano che i figli crescano. Io le risponderò "dopo Dante ci vuole". E in effetti, dopo aver parlato per due ore dell'inferno, ci vuole:
sono le sette di metà luglio, non fa troppo caldo o almeno, sudato come sono, quel poco vento che c'è riesce a rinfrescare e lo scenario di impalcature e di oggetti lasciati a riposare in attesa del giorno seguente è complice, e mi conforta. Mi chiedo come sarà quando avrò dato l'esame.
Poi è arrivato il 20 luglio e ho dato l'esame. Poi sono stato 10 giorni in viaggio, un po' in Croazia e un po' in Bosnia.
Ora sono tornato a casa. Mi siedo in terrazza a fumare. Hanno portato via gli oggetti e smontato le impalcature. I vasi sono ancora lì al centro senza più un motivo. Sembra il secondo tempo di un film che era finito già al primo. Senza attori e set, senza luci e suoni giusti. Immaginavo che dopo sarebbe stato così.
E io fumo a salve.
Una volta ho iniziato a spiegare il terzo canto a mia nonna: "allora ci sta Dante che sta per entrare nell'inferno, in cima alla porta ci stanno scritte parole poco rassicuranti infatti. Però c'è Virgilio che lo prende proprio per mano per farlo entrare". "Ma che è 'na barzelletta?" mi ha chiesto mia nonna.
Posterulam era una piccola porta situata nella parte posteriore degli edifici, in un luogo nascosto. La postierla era quindi una porta segreta usata nei castelli e nelle fortezze come uscita di emergenza.
sabato 6 agosto 2011
Ci sono rimasto male
Tanto tempo fa, ci rimasi male. Ero in macchina, portato chissà dove da mia madre. Ci rimasi male perché la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Ci rimasi male perché l'edificio della memoria era mal progettato, e piuttosto fatiscente. C'erano delle stanze che, per quanto cercassi, non riuscivi più a trovare. C'erano stanze con porte difettose, e c'erano stanze ingannatrici che conservavano ricordi di cose mai accadute o accadute diversamente.
Ero in macchina con mia madre e ci rimasi male perché la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Allora decisi di ricordarmi per sempre qualcosa che altrimenti sarebbe scomparso dalla mia vita. Un capriccio lecito per un bambino di otto anni. Ero arrabbiato con la memoria. Come si permetteva di dimenticare? A volte contro la mia volontà per giunta. Che diritto ne aveva? Mi guardai intorno, non troppo intorno in effetti: fissai gli occhi sulla macchina davanti a me. Lessi la sua targa e decisi di ricordarmela, per sempre. Avevo sfidato la memoria.
Mi chiedevo se sarei riuscito a ricordarla davvero. Quante erano state le cose che mi ero promesso, senza mantenere, di ricordare? Quante cose ben più utili avevo dimenticato? Decisi di riportala alla mente ogni tanto, per togliere la polvere dalle lettere e dai numeri che altrimenti sarebbero diventati illegibili. Iniziai a custodirla con cura in qualche camera della memoria.
Ora, però, di quella targa non so che farmene. è già un po' che ho deciso di non spolvelarla più, nella speranza che briciole e pezzi di ricordi che si sgretolano la ricoprano. Così che lo spazzino, passando di tanto in tanto a mettere in ordine, la porti via senza farci caso, la getti sbadatamente nel mucchio della spazzatura. Invece è ancora lì. Come se, al contrario, lo spazzino, obbediente al bambino di otto anni, passi ogni giorno solamente per lei, dia una lustrata a quella targa appesa ben in vista sul muro, mentre ricordi spezzati sono ammucchiati sul letto, altri sono diventati polvere fra le pagine dei libri, tacendo-necessariamente- di quelli portati via attraverso la finestra aperta dal vento, entrato e uscito come il ladro che è stato.
Così quando giro per quel fatiscente edificio in cerca di qualcosa di importante, quando mi chino a terra cercando sotto il tappeto, o salgo su una scala per cercare tra le pagine dei libri, sporcandomi e trovando nient'altro che cenere, briciole e polvere, l'occhio non può fare a meno di cadermi su quella targa, su quei numeri e quelle lettere nere su sfondo bianco. La cera passata dallo spazzino le dà un tocco decisamente pacchiano.
Ero in macchina con mia madre e ci rimasi male perché la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Allora decisi di ricordarmi per sempre qualcosa che altrimenti sarebbe scomparso dalla mia vita. Un capriccio lecito per un bambino di otto anni. Ero arrabbiato con la memoria. Come si permetteva di dimenticare? A volte contro la mia volontà per giunta. Che diritto ne aveva? Mi guardai intorno, non troppo intorno in effetti: fissai gli occhi sulla macchina davanti a me. Lessi la sua targa e decisi di ricordarmela, per sempre. Avevo sfidato la memoria.
Mi chiedevo se sarei riuscito a ricordarla davvero. Quante erano state le cose che mi ero promesso, senza mantenere, di ricordare? Quante cose ben più utili avevo dimenticato? Decisi di riportala alla mente ogni tanto, per togliere la polvere dalle lettere e dai numeri che altrimenti sarebbero diventati illegibili. Iniziai a custodirla con cura in qualche camera della memoria.
Ora, però, di quella targa non so che farmene. è già un po' che ho deciso di non spolvelarla più, nella speranza che briciole e pezzi di ricordi che si sgretolano la ricoprano. Così che lo spazzino, passando di tanto in tanto a mettere in ordine, la porti via senza farci caso, la getti sbadatamente nel mucchio della spazzatura. Invece è ancora lì. Come se, al contrario, lo spazzino, obbediente al bambino di otto anni, passi ogni giorno solamente per lei, dia una lustrata a quella targa appesa ben in vista sul muro, mentre ricordi spezzati sono ammucchiati sul letto, altri sono diventati polvere fra le pagine dei libri, tacendo-necessariamente- di quelli portati via attraverso la finestra aperta dal vento, entrato e uscito come il ladro che è stato.
Così quando giro per quel fatiscente edificio in cerca di qualcosa di importante, quando mi chino a terra cercando sotto il tappeto, o salgo su una scala per cercare tra le pagine dei libri, sporcandomi e trovando nient'altro che cenere, briciole e polvere, l'occhio non può fare a meno di cadermi su quella targa, su quei numeri e quelle lettere nere su sfondo bianco. La cera passata dallo spazzino le dà un tocco decisamente pacchiano.
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