Posterulam era una piccola porta situata nella parte posteriore degli edifici, in un luogo nascosto. La postierla era quindi una porta segreta usata nei castelli e nelle fortezze come uscita di emergenza.
venerdì 30 settembre 2011
giovedì 29 settembre 2011
150 anni portati male
- Che studi?
- Il ruolo dei poeti nel Risorgimento.
- Ah-ah...e che facevano? andavano a combatte?
Tanto siamo pure in tema perché è ancora 2011, e quindi ancora centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. Perché l'Italia, nonostante tutto, è unita. Ancora.
Okay, ci può stare che i letterati (poeti, scrittori, ma anche studenti di lettere e insegnanti) siano presi poco in considerazione quando si tratta di affrontare problemi pratici, che vanno dall'aggiustare una lampadina a combattere una guerra. Però c'è stato un periodo in cui non è stato così, e non tutti lo sanno. Durante il risorgimento non lo è stato. Molti poeti, ora poco conosciuti a dire il vero, non solo scrivevano poesie patriottiche in cui "urlavano" all'armi all'armi!, ma poi quelle armi le prendevano e andavano a combattere. A parte alcuni casi: come immaginarsi Leopardi alle prese con un fucile mentre combatte contro gli austriaci? Molto più consono immaginarsi le risate ironiche suscitate dai suoi versi: L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. Come insegna Corrado Guzzanti, Leopardi morirà di gobba, non certo combattendo. Per fare qualche esempio, tra i più noti: Ugo Foscolo si arruola nella Guardia Nazionale e poco dopo rimane ferito a Cento, poi è arrestato perché ritenuto spia austriaca, partecipa alla battaglia di Novi, rimane di nuovo ferito nella battaglia per la difesa di Genova; Ippolito Nievo partecipa all'insurrezione di Mantova, alla rivolta di Livorno, partecipa all'impresa dei mille con la nomina di "intendente di prima classe", affondò con la nave che riportava i documenti della spedizione dei mille; Berchet partecipa ai moti insurrezionali del 1821; Goffredo Mameli, da subito (anche perché non ebbe molto tempo) fu seguace di Mazzini, partecipa alle cinque giornate di Milano. Muore in seguito alle ferite riportate nella battaglia per la difesa della repubblica romana, il 6 luglio del 1849. Due mesi dopo avrebbe compiuto ventidue anni.
- Sì, in effetti andavano a combatte.
Ma, a pensarci bene, il ruolo più importante lo ebbero, se così si può dire, nella teoria e non nella pratica (come stereotipo vuole). Con la miriade di inni, poesie, canzoni, che scrissero in tempo reale, durante gli infervorati anni del risorgimento italiano. Quindi forse la risposta più corretta sarebbe:
- Sì, in effetti andavano a combatte. Ma soprattutto scrissero un sacco di poesie.
Un libro molto interessante, sul tema, è quello Alberto Mario Banti: La nazione del risorgimento. Ve lo consiglio.
- Il ruolo dei poeti nel Risorgimento.
- Ah-ah...e che facevano? andavano a combatte?
Tanto siamo pure in tema perché è ancora 2011, e quindi ancora centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. Perché l'Italia, nonostante tutto, è unita. Ancora.
Okay, ci può stare che i letterati (poeti, scrittori, ma anche studenti di lettere e insegnanti) siano presi poco in considerazione quando si tratta di affrontare problemi pratici, che vanno dall'aggiustare una lampadina a combattere una guerra. Però c'è stato un periodo in cui non è stato così, e non tutti lo sanno. Durante il risorgimento non lo è stato. Molti poeti, ora poco conosciuti a dire il vero, non solo scrivevano poesie patriottiche in cui "urlavano" all'armi all'armi!, ma poi quelle armi le prendevano e andavano a combattere. A parte alcuni casi: come immaginarsi Leopardi alle prese con un fucile mentre combatte contro gli austriaci? Molto più consono immaginarsi le risate ironiche suscitate dai suoi versi: L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. Come insegna Corrado Guzzanti, Leopardi morirà di gobba, non certo combattendo. Per fare qualche esempio, tra i più noti: Ugo Foscolo si arruola nella Guardia Nazionale e poco dopo rimane ferito a Cento, poi è arrestato perché ritenuto spia austriaca, partecipa alla battaglia di Novi, rimane di nuovo ferito nella battaglia per la difesa di Genova; Ippolito Nievo partecipa all'insurrezione di Mantova, alla rivolta di Livorno, partecipa all'impresa dei mille con la nomina di "intendente di prima classe", affondò con la nave che riportava i documenti della spedizione dei mille; Berchet partecipa ai moti insurrezionali del 1821; Goffredo Mameli, da subito (anche perché non ebbe molto tempo) fu seguace di Mazzini, partecipa alle cinque giornate di Milano. Muore in seguito alle ferite riportate nella battaglia per la difesa della repubblica romana, il 6 luglio del 1849. Due mesi dopo avrebbe compiuto ventidue anni.
- Sì, in effetti andavano a combatte.
Ma, a pensarci bene, il ruolo più importante lo ebbero, se così si può dire, nella teoria e non nella pratica (come stereotipo vuole). Con la miriade di inni, poesie, canzoni, che scrissero in tempo reale, durante gli infervorati anni del risorgimento italiano. Quindi forse la risposta più corretta sarebbe:
- Sì, in effetti andavano a combatte. Ma soprattutto scrissero un sacco di poesie.
Un libro molto interessante, sul tema, è quello Alberto Mario Banti: La nazione del risorgimento. Ve lo consiglio.
sabato 24 settembre 2011
Istantanee replicazioni
In esercizi di stile di Raymond Queneau si parla della famosa foto di Bresson. Infatti il pittore Pierre Alechinsky, in occasione di una mostra in cui testi letterari venivano abbinati agli scatti di Bresson, ha avanzato l'ipotesi che la famosa foto ritragga proprio l'autore degli esercizi, Queneau.
Questo perché il luogo dove l'uomo, dal cui punto vista sono narrati quasi tutti gli esercizi di stile (la stessa storia "banale" raccontata in novantanove modi), vede per la seconda volta un ragazzo è proprio la stazione di Saint-Lazare. Nel libro è spiegato che la presenza di Queneau nella foto è possibile (era a Parigi al momento dello scatto e il suo studio è vicino alla stazione) ma poco probabile. Quanto quella di essere tu in una foto scattata vicino al tuo posto di lavoro. Comunque questa foto è una delle mie preferite, forse perché è stata anche una delle prime a rimanermi impresse. Probabilmente la vidi da bambino su un libro di fotografie comprato da mio padre. Ricordo che mi colpì, e non mi chiesi perché. E non lo saprei dirlo con certezza neanche ora. Ma ci provo.
Mi piace perché sembra un aggroviglio di coincidenze. Incredibilmente casuale. Perché ogni particolare sembra lì apposta, non c'è nulla di inutile. Si sa che le fotografie immortalano un istante, irripetibile. E questa istantanea ripete al suo interno l'attimo che non ci sarà più, tramite riflessi naturali e artificiali. Lo specchio d'acqua divide a metà la fotografia, e moltiplica l'immagine. La sagoma dell'uomo che sta correndo è replicata sotto di lui, ma anche sopra, notando il manifesto sullo sfondo che ritrare un'altra figura nella stessa posa dell'uomo (anche il manifesto è replicato dall'acqua). Di manifesti in realtà ce ne sono due, uguali e attaccati (uno vicino all'altro), ma di quello più a destra dei due ne è rimasta metà, l'altra sembra sia stata strappata. C'è un altro manifesto però, anzi altri due, sempre uguali e sempre attaccati (uno sopra all'altro: variazioni sul tema della replica). C'è scritto "RAILOWSKY", e non "BRAILOWSKY", il pianista in concerto a Parigi: anche una parte di questo manifesto è stata strappata. E così è rimasto RAIL-OW-SKY, ferrovia e cielo. Il cielo sotto cui si svolge l'istante, e sopra al quale è replicato. E la ferrovia: quella scala gettata sull'acqua dalla quale sembra provenire, come un treno in corsa, l'uomo.
Un istante dopo l'uomo sarà atterrato nella pozza, l'immagine replicata nell'acqua si dissolverà. E avrà ragione l'altro uomo, quello sullo sfondo, che dà le spalle all'attimo.
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Dietro Gare Saint-Lazar |
Mi piace perché sembra un aggroviglio di coincidenze. Incredibilmente casuale. Perché ogni particolare sembra lì apposta, non c'è nulla di inutile. Si sa che le fotografie immortalano un istante, irripetibile. E questa istantanea ripete al suo interno l'attimo che non ci sarà più, tramite riflessi naturali e artificiali. Lo specchio d'acqua divide a metà la fotografia, e moltiplica l'immagine. La sagoma dell'uomo che sta correndo è replicata sotto di lui, ma anche sopra, notando il manifesto sullo sfondo che ritrare un'altra figura nella stessa posa dell'uomo (anche il manifesto è replicato dall'acqua). Di manifesti in realtà ce ne sono due, uguali e attaccati (uno vicino all'altro), ma di quello più a destra dei due ne è rimasta metà, l'altra sembra sia stata strappata. C'è un altro manifesto però, anzi altri due, sempre uguali e sempre attaccati (uno sopra all'altro: variazioni sul tema della replica). C'è scritto "RAILOWSKY", e non "BRAILOWSKY", il pianista in concerto a Parigi: anche una parte di questo manifesto è stata strappata. E così è rimasto RAIL-OW-SKY, ferrovia e cielo. Il cielo sotto cui si svolge l'istante, e sopra al quale è replicato. E la ferrovia: quella scala gettata sull'acqua dalla quale sembra provenire, come un treno in corsa, l'uomo.
Un istante dopo l'uomo sarà atterrato nella pozza, l'immagine replicata nell'acqua si dissolverà. E avrà ragione l'altro uomo, quello sullo sfondo, che dà le spalle all'attimo.
venerdì 23 settembre 2011
Eternamenti
Ieri ho visto una fotografia, scattata un paio di mesi fa. Anzi mi sa due mesi precisi. Nella foto ci sono io, seduto, il corpo è di profilo e il viso guarda nella direzione in cui punta l'obiettivo della macchina fotografica: verso la cartina appesa al muro alla mia sinistra. Sopra il tavolo, davanti a me, c'è il computer, due o tre guide della Croazia, un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri.
Dicevo: ho visto questa foto ieri al pc, seduto alla scrivania della mia camera. La vacanza che stavo progettando col mio amico è stata consumata, siamo stati nelle città che avevamo segnato con la matita sulla cartina, ora siamo tornati a casa.
Ieri sulla scrivania, oltre al pc, c'era un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri. Gli stessi, ma altri.
E questo mi ha messo un po' di ansia.
Dicevo: ho visto questa foto ieri al pc, seduto alla scrivania della mia camera. La vacanza che stavo progettando col mio amico è stata consumata, siamo stati nelle città che avevamo segnato con la matita sulla cartina, ora siamo tornati a casa.
Ieri sulla scrivania, oltre al pc, c'era un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri. Gli stessi, ma altri.
E questo mi ha messo un po' di ansia.
giovedì 22 settembre 2011
Avanti un altro che c'è poco tempo
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Cosa dice la protagonista della canzone al suo amato? |
Innanzitutto la cultura (se così si può chiamare, viste alcune delle domande poste) non è affatto generale, al contrario. Sono domande dettagliate che propongono una cultura dettagliata, frammentaria e quindi incompleta. Se volessi imparare cose interessanti (e dal mio punto di vista, non da quello degli ideatori delle domande della trasmissione) comprerei un libro (dove le informazioni non sono date sotto la forma di risposte, chiuse).
L'impressione è quella di entrare in una mostra allestita con microscopici dettagli dei quadri: il dito della gioconda, un mostriciattolo di un quadro di Bosh, la lampada-bomba della Guernica. Tu giri e sei lì a chiederti dove sia tutto il resto. Non ti fai un'idea se non a proposito dell'igiene delle unghie della Mona Lisa, della fantasia di Bosh, e dello strano arredamento che doveva aver Picasso in casa sua. Ma, si sa, lo scopo della tv non è fare cultura ma fare soldi.
E con Avanti un altro è evidente, per come tratta la merce, umana e culturale.
Il programma funziona più o meno così: c'è una fila di concorrenti (in piedi dietro un tornello, proprio come se fosse in fila alla cassa del supermercato: tutti sperano che il cliente che li precede faccia presto). Bonolis pone delle domande al cliente di turno in blocchi di tre, cioè su tre domande puoi fare un solo errore. Alla fine di ogni blocco superato peschi una provetta al cui interno c'è un foglio con scritta la cifra di euro che hai la possibilità di sommare al tuo montepremi superando il secondo blocco di tre domande. E così via finché il concorrente non decide di fermarsi, sperando che nessun altro avventore superi la sua cifra. Può anche capitare che a un concorrente vengano poste solamente due domande, nel caso in cui sbagliasse due volte consecutive, e allora : "Avanti un altro" dice Bonolis.È un susseguirsi vorticoso di volti che appaiono sullo schermo e vengono sostituiti rapidamente. Ad un certo punto della trasmissione inizia un count-down di 5 minuti: tutto avviene ancora più velocemente di prima: il supermercato sta per chiudere. Bonolis legge le domande come se stesse leggendo le controindicazioni di una medicina in uno spot pubblicitario. Il concorrente deve rispondere altrettanto velocemente, sbaglia, "avanti un altro", arriva l'altro, "e che mi dà pure la mano? si sbrighi c'è poco tempo" (non si saluta neanche più), "risposta sbagliata, la risposta esatta era l'altra perché nel 1545...eccetera..eccetera..vabbeh non c'è tempo".
A questo punto ho spento la tv.
Ecco succede questo: Bonolis ha iniziato a leggere sul suo monitor la pur breve spiegazione di una risposta e dopo tre parole ha detto "eccetera eccetera, vabeh non c'è tempo".
martedì 20 settembre 2011
fra intendimenti
- Buongiorno...
- Buongiorno!
- Mi dia 'il fatto quotidiano'
- Oggi non esce!
- Non le ho chiesto 'oggi', le ho chiesto il fatto...il giornale!
- Ah, 'il giornale'! Ecco a lei...
- No...non 'il giornale'. Il giornale che si chiama 'il fatto quotidiano'
- Ah, oggi non esce!
- Va beh ho capito...mi dia 'la Repubblica'
- Se vabeh...e chi so', Napolitano?
lunedì 19 settembre 2011
Aspettare
Parlerei un attimo di attesa. Tipo quando vorresti che ti arrivasse un messaggio che non arriva, e stai lì a guardare il telefono ogni 10 minuti. E quando poi ti arriva un sms il tuo sguardo si illumina. Che poi vai a leggere ed è l'offerta di una macchina da comprare a rate lustrali, o di un sacco di partite di calcio solo per te.
Roland Barthes scriveva così, in Frammenti di un discorso amoroso :
"L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio): per la stessa ragione io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea di dover uscire tra poco, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano,senza far niente."
Bisognerebbe avvertire Roland che, come diceva non mi ricordo chi, l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela. Una frase che non è vera, dal punto di vista della storia. Ma dal punto di vista delle persone sì.
Mi spiego con un esempio:
prendiamo due persone, fittiziamente chiamate P. e P.. Per distinguerle useremo però l'iniziale del nome di uno, P., e l'iniziale del cognome dell'altro G., giacché anche i cognomi iniziano con la stessa iniziale, la G.
Ebbene, P. e G. sono molto amici e oggi pomeriggio sono usciti insieme per fare delle compere. Bisogna sapere inoltre che oggi P. si è svegliato con un incredibile desiderio di prendersi una cacata di piccione in testa, mentre G., di una cacca in testa, non ne sente affatto il bisogno (e quando esce, con P. ad esempio, non pensa proprio ai piccioni). Verso le 16.00 un piccione svolazzava proprio sopra ai due amici. P. aveva adocchiato quel piccione e cambiava traiettora con lui come se fosse collegato al volatile con un filo, legato al naso. Infatti P. camminava, non senza incresciosi inconvenienti, a testa in sù per meglio seguire l'uccello. Pareva volesse prenderla proprio in piena fronte. G. non capiva la situazione, che P. si esimeva dallo spiegargli, e tutti gli sforzi per convincere l'amico a guardare davanti a sé o quantomeno a tenere un andamento rettilineo risultavano inutili. Non solo, ma quando G. entrava in qualche negozio (erano usciti per fare delle compere) P. diceva che preferiva restare fuori; e G. doveva recuperarlo non senza fatica, dal momento che P. non si limitava ad aspettare fuori dalla porta, ma riprendeva l'inseguimento dal basso. Fatto sta che il piccione doveva aver cacato da poco perché per tutto il tempo in cui i due amici hanno camminato insieme nessuno cacò sulle loro teste. P. e G. arrivano in piazza, si salutano, e ognuno prende la via di casa.
Conclusione:
-P., camminando ancora a testa in sù, starà pensando "mannaggia, oggi non c'è stato verso di farsi cacare in testa da quel piccione stitico del cazzo", e quando starà aprendo il portone di casa avrà senza dubbio il volto rabbuiato. Per P. non è successa una cosa che tanto aspettava che accadesse. Per lui è proprio non successa.
-G., camminando normalmente, starà pensando ai fatti suoi (probabilmente allo strano comportamento del suo amico P.) e quando starà aprendo il portone di casa e un piccione gli cacherà in testa avrà senza dubbio il volto rabbuiato. Per lui e per me è successa una cosa senz'altro spiacevole (per lui, perché gli hanno cacato addosso, e per me perché manda a puttane l'esempio).
Facciamo finta che il piccione non abbia cacato sulla testa di G.. Allora oggi nessun piccione avrebbe fatto la cacca né su P. né su G.; ma P. aspettava quella cacca quindi potremmo dire che, se a P. e a G. fosse chiesto di parlare della loro giornata di oggi, P. potrebbe dire "oggi un piccione non mi ha fatto la cacca in testa"; mentre a G. non verrebbe mai in mente di parlare a proposito di un piccione che non ha fatto la cacca. Ovverosia, sempre fingendo che nell'esempio il piccione che proprio all'ultimo momento ha fatto la cacca su G. non l'abbia fatto, potremmo dire che tale piccione non ha fatto la cacca benché P. se l'aspettasse mentre a G. non gliene fregava un cazzo di quel piccione. (C'è da dire qualcosa su quel benché: in realtà il piccione non avrebbe fatto la cacca, punto. Senza benché e senza turbe di P.). Insomma sulla Gazzetta di Z. (Z. è la città di P. e G.) di domani non ci sarà scritto nulla a proposito del piccione. Quell'evento non è accaduto con buona pace di tutti.
Per questo la frase "l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela" non è vero dal punto di vista della storia. Nel senso che il piccione non ha fatto la cacca, anche se c'era G. che non se l'aspettava.
Ma dal punto di vista delle persone è vero. Perché se G. non si aspetta una cacata di un piccione allora non c'è motivo, per lui, perché quella cosa debba accadere e qualora non accadesse, come facciamo finta che sia, non ne sentirebbe la mancanza. Non sarebbe né successa, né non successa. Sarebbe mai esistita.
Che poi, se andiamo a guardare bene quanto successo, P. si aspettava la cacata, ma quello che se l'è presa è stato proprio G.
Forse mi sono lasciato prendere un po' troppo dall'esempio, ma spero che abbia aiutato a capire.
Con questo non voglio affatto schierarmi dalla parte di chi non aspetta, anzi. Secondo me è molto più poetico percorrere strane traiettorie col naso all'insù. Anche se alla fine della giornata nessun piccione ti avrà cacato in testa.
Certo troppa attesa non fa bene, tipo Lucio Fontana, stanco di aspettare l'idea giusta per un quadro, ha sbroccato e ha squarciato la tela.
Roland Barthes scriveva così, in Frammenti di un discorso amoroso :
"L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio): per la stessa ragione io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea di dover uscire tra poco, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano,senza far niente."
Bisognerebbe avvertire Roland che, come diceva non mi ricordo chi, l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela. Una frase che non è vera, dal punto di vista della storia. Ma dal punto di vista delle persone sì.
Mi spiego con un esempio:
prendiamo due persone, fittiziamente chiamate P. e P.. Per distinguerle useremo però l'iniziale del nome di uno, P., e l'iniziale del cognome dell'altro G., giacché anche i cognomi iniziano con la stessa iniziale, la G.
Ebbene, P. e G. sono molto amici e oggi pomeriggio sono usciti insieme per fare delle compere. Bisogna sapere inoltre che oggi P. si è svegliato con un incredibile desiderio di prendersi una cacata di piccione in testa, mentre G., di una cacca in testa, non ne sente affatto il bisogno (e quando esce, con P. ad esempio, non pensa proprio ai piccioni). Verso le 16.00 un piccione svolazzava proprio sopra ai due amici. P. aveva adocchiato quel piccione e cambiava traiettora con lui come se fosse collegato al volatile con un filo, legato al naso. Infatti P. camminava, non senza incresciosi inconvenienti, a testa in sù per meglio seguire l'uccello. Pareva volesse prenderla proprio in piena fronte. G. non capiva la situazione, che P. si esimeva dallo spiegargli, e tutti gli sforzi per convincere l'amico a guardare davanti a sé o quantomeno a tenere un andamento rettilineo risultavano inutili. Non solo, ma quando G. entrava in qualche negozio (erano usciti per fare delle compere) P. diceva che preferiva restare fuori; e G. doveva recuperarlo non senza fatica, dal momento che P. non si limitava ad aspettare fuori dalla porta, ma riprendeva l'inseguimento dal basso. Fatto sta che il piccione doveva aver cacato da poco perché per tutto il tempo in cui i due amici hanno camminato insieme nessuno cacò sulle loro teste. P. e G. arrivano in piazza, si salutano, e ognuno prende la via di casa.
Conclusione:
-P., camminando ancora a testa in sù, starà pensando "mannaggia, oggi non c'è stato verso di farsi cacare in testa da quel piccione stitico del cazzo", e quando starà aprendo il portone di casa avrà senza dubbio il volto rabbuiato. Per P. non è successa una cosa che tanto aspettava che accadesse. Per lui è proprio non successa.
-G., camminando normalmente, starà pensando ai fatti suoi (probabilmente allo strano comportamento del suo amico P.) e quando starà aprendo il portone di casa e un piccione gli cacherà in testa avrà senza dubbio il volto rabbuiato. Per lui e per me è successa una cosa senz'altro spiacevole (per lui, perché gli hanno cacato addosso, e per me perché manda a puttane l'esempio).
Facciamo finta che il piccione non abbia cacato sulla testa di G.. Allora oggi nessun piccione avrebbe fatto la cacca né su P. né su G.; ma P. aspettava quella cacca quindi potremmo dire che, se a P. e a G. fosse chiesto di parlare della loro giornata di oggi, P. potrebbe dire "oggi un piccione non mi ha fatto la cacca in testa"; mentre a G. non verrebbe mai in mente di parlare a proposito di un piccione che non ha fatto la cacca. Ovverosia, sempre fingendo che nell'esempio il piccione che proprio all'ultimo momento ha fatto la cacca su G. non l'abbia fatto, potremmo dire che tale piccione non ha fatto la cacca benché P. se l'aspettasse mentre a G. non gliene fregava un cazzo di quel piccione. (C'è da dire qualcosa su quel benché: in realtà il piccione non avrebbe fatto la cacca, punto. Senza benché e senza turbe di P.). Insomma sulla Gazzetta di Z. (Z. è la città di P. e G.) di domani non ci sarà scritto nulla a proposito del piccione. Quell'evento non è accaduto con buona pace di tutti.
Per questo la frase "l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela" non è vero dal punto di vista della storia. Nel senso che il piccione non ha fatto la cacca, anche se c'era G. che non se l'aspettava.
Ma dal punto di vista delle persone è vero. Perché se G. non si aspetta una cacata di un piccione allora non c'è motivo, per lui, perché quella cosa debba accadere e qualora non accadesse, come facciamo finta che sia, non ne sentirebbe la mancanza. Non sarebbe né successa, né non successa. Sarebbe mai esistita.
Che poi, se andiamo a guardare bene quanto successo, P. si aspettava la cacata, ma quello che se l'è presa è stato proprio G.
Forse mi sono lasciato prendere un po' troppo dall'esempio, ma spero che abbia aiutato a capire.
Con questo non voglio affatto schierarmi dalla parte di chi non aspetta, anzi. Secondo me è molto più poetico percorrere strane traiettorie col naso all'insù. Anche se alla fine della giornata nessun piccione ti avrà cacato in testa.
Certo troppa attesa non fa bene, tipo Lucio Fontana, stanco di aspettare l'idea giusta per un quadro, ha sbroccato e ha squarciato la tela.
Lucio Fontana. Concetto Spaziale "Attesa".
domenica 11 settembre 2011
io...te...mio...tuo...che differenza fa?
Succede che durante un concerto piuttosto movimentato, sotto al palco, si poghi. Così ti trovi a spingere (ed essere spinto) a destra e a sinistra (anche contemporaneamente), a schivare persone lanciate a tutta velocità, a non riuscire a schivarle, a cadere per terra e farti rialzare dalla prima mano porta verso di te (che poi ti darà una pacca sulla spalla, a significare:"si riparte!"), quindi a fare comunella con un tipo mezzo ubriaco e mezzo brillo che ha deciso di sollevare chicchessia sopra la folla per poi passarlo alle mani alzate più vicine.
Però succede anche che il cellulare riposto nella tasca, nella baraonda generale, salti fuori per depositarsi a terra, là dove molto probabilmente in breve tempo passerà una gran quantità di piedi appartenenti a persone impegnate nelle suddette attività. Se sei fortunato te ne accorgi subito e, per quanto rischioso sia, decidi di abbassarti per cercare, nel buio, di recuperarlo. Un altro ragazzo si è accorto dell'accaduto e comincia ad aiutarti. Uno, in piedi, prova a deviare le persone che si lanciano nella direzione dell'altro, accovacciato a cercare. Poi, visti gli scarsi risultati della caccia, vi accovacciate entrambi, lasciandovi però senza difesa. Tra urla, spintoni e piedi imprevedibili trovi un pezzo del cellulare, poi l'altro, aiutandoti con la luce del tuo cellulare. Poi restituisci i pezzi all'altro ragazzo che ti dà un pacca sulla spalla, a significare: "si riparte!"
___
"Ah io sono contro la pena di morte! però se una cosa del genere capitasse a mio figlio!"
___
- "questo è mio!", "quello è mio!"...braccino corto che sei!
- ma non è vero, ti sto solo dicendo che quello è il mio maglione, che poi l'ho preso a mio nonno che non se la mette più perché gli sembra un pigiama. Che poi te la stai mettendo tu...anzi, mentre tu suonavi al citofono di casa "mia", fra l'altro senza avermi avvertito che arrivavi, stavo proprio per scrivere un intervento su questo
- su questo cosa?
- sul fatto che "mio", "tuo"... non ha senso, anche le persone intendo. boh hanno tutte la stessa importanza per me.
- non capisco
- volevo partire raccontando che l'altro giorno, a un concerto, in mezzo al pogo, è caduto il cellulare a un ragazzo e mi sono messo a cercarlo con lui mentre le persone ci calpestavano...però vabeh questo può sembrare buonsenso o che ne so...invece non l'ho fatto per buonsenso o generosità. L'ho capito perché quando mi ha ringraziato sono rimasto spiazzato anche se so che doveva sembrare normale...insomma poi volevo arrivare a dire che per me le persone sono tutte uguali...ma non nel senso della frase più banale del mondo tipo "siamo tutti uguali"
- ...
- tipo in un mondo in cui tutti la pensassero così, se ti succede che stai con una persona, poi arriva un tipo e ti dice "uno di voi due deve morire, però tu puoi scegliere quale"...tu dovresti rispondere al tipo "tira una monetina". E non lo faresti per generosità...non so spiegarmi
- ma è brutto così
- boh, io la penso così
- non c'è lo spirito di sopravvivenza...sminuisci il valore della vita
- no, anzi. Dò lo stesso valore alle due vite. Perché una dovrebbe essere più importante dell'altra?
- Perché è la tua.
mercoledì 7 settembre 2011
La lotteria dei calci di rigori (una bozza pubblicata ora, non so perché)
Io non sono proprio d'accordo coi rigori. Prima era solo una sensazione. Come quando la pensi in un certo modo ma non te ne sei ancora accorto. Poi ci sono stati i mondiali in Sud Africa, nel 2010. C'è stato il quarto di finale Ghana-Uruguay. Succede che all'ultimo secondo dei tempi supplementari stanno pareggiando 1-1. Un gol ora sarebbe esiziale per chi lo subisca. C'è tempo solo per un ultimo attacco ghanese. La palla viene crossata al centro e dopo un batti e ribatti il portieri è fuori dai pali, un ghanese tira di testa e lo supera: la palla sta finendo in porta. Ma fra i pali ci stanno due giocatori uruguayani, uno di loro dà un pugno al pallone e gli impedisce di entrare. Mi viene da dire "era gol", non "sarebbe stato gol". Perché il condizionale non andrebbe bene, anzi non va bene, nel caso in cui la condizione non dovrebbe, non deve, essere presa in considerazione. E un giocatore che prende la palla con la mano sulla linea di porta, sapendo poi di essere espulso, non dovrebbe, non deve esistere.Però lo fa. è un fuorilegge. E infatti viene espulso. Rigore per il ghana.
Il rigore viene sbagliato, e si va ai famosi calci di rigore. 4-2 per l'Uruguay.
L'altro giorno ho visto il Brasile che prendeva a pallonate il Paraguay. Insomma, come dice quella battuta, il Paraguay, sulla carta, non ha possibilità di vincere con il Brasile, però si gioca sull'erba, e quindi non si sa mai. Comunque, in genere, le squadre che sulla carta sono molto più forti dei loro avversari vincono. In genere. Infatti l'altro giorno il Paraguay ha eliminato il Brasile dalla Coppa America.
Se ci fosse un dio del calcio e dovesse spiegare le regole ai giocatori prima che scendano in campo, secondo me, alla squadra del Brasile, avrebbe detto qualcosa di questo tipo: "il campo è il mondo, e non si può uscire. La vita dura 90 minuti e lo scopo della vita è battere il Paraguay. Come vedete è molto semplice: gli avversari sono molto più scarsi e voi avete la bellezza di un'ora e mezza. Che vi avanza pure. Però, per sicurezza, vi concedo anche un pezzo di vita in più, della durata di 30 minuti. Insomma, 2 ore per battere il Paraguay mi sembrano fin troppe."
Così il Brasile è sceso in campo e ha cominciato a perseguire lo scopo della sua vita. Il Paraguay neanche ci provava a perseguire il suo. Il portiere del Brasile non ha toccato un pallone per tutta la partita, mentre quello del Paraguay è stato il giocatore della sua squadra ad aver toccato il pallone per più tempo. Sembrava che il Brasile avesse capito male lo scopo: non battere l'avversario ma dimostrare la sua superiorità. Comunque, passati i 90 minuti, il risultato rimaneva 0-0. Che, pure lui (lo 0-0), ha un faccia molto stupita. E allora c'è il pezzo di vita in più, quello di cui il Brasile non aveva bisogno e che il Paraguay non sperava neanche di vivere. E pure quello finisce 0-0, dopo mezz'ora di superiorità brasiliana.
E allora si battono i rigori, che però non hanno niente a che fare con la vita. La vita è tutta in movimento, è una corsa continua, è salti, scivolate, cross precisi e colpi di testa. Non ha niente a che fare con una palla, posta a 11 m dal centro della porta, che si calcia senza alcun disturbo. Insomma, giocarsi lo scopo della vita in questo modo può sembrare alquanto ingiusto, è più fortuna che bravura. E infatti i teologi, cioè i telecronisti, quest'affare qua lo chiamano proprio "lotteria dei calci di rigori". Insomma, dopo che hai passato una vita a far vedere che sei molto più bravo degli altri, affidare tutta la faccenda al caso può risultare una scocciatura, o no?
Il rigore viene sbagliato, e si va ai famosi calci di rigore. 4-2 per l'Uruguay.
L'altro giorno ho visto il Brasile che prendeva a pallonate il Paraguay. Insomma, come dice quella battuta, il Paraguay, sulla carta, non ha possibilità di vincere con il Brasile, però si gioca sull'erba, e quindi non si sa mai. Comunque, in genere, le squadre che sulla carta sono molto più forti dei loro avversari vincono. In genere. Infatti l'altro giorno il Paraguay ha eliminato il Brasile dalla Coppa America.
Se ci fosse un dio del calcio e dovesse spiegare le regole ai giocatori prima che scendano in campo, secondo me, alla squadra del Brasile, avrebbe detto qualcosa di questo tipo: "il campo è il mondo, e non si può uscire. La vita dura 90 minuti e lo scopo della vita è battere il Paraguay. Come vedete è molto semplice: gli avversari sono molto più scarsi e voi avete la bellezza di un'ora e mezza. Che vi avanza pure. Però, per sicurezza, vi concedo anche un pezzo di vita in più, della durata di 30 minuti. Insomma, 2 ore per battere il Paraguay mi sembrano fin troppe."
Così il Brasile è sceso in campo e ha cominciato a perseguire lo scopo della sua vita. Il Paraguay neanche ci provava a perseguire il suo. Il portiere del Brasile non ha toccato un pallone per tutta la partita, mentre quello del Paraguay è stato il giocatore della sua squadra ad aver toccato il pallone per più tempo. Sembrava che il Brasile avesse capito male lo scopo: non battere l'avversario ma dimostrare la sua superiorità. Comunque, passati i 90 minuti, il risultato rimaneva 0-0. Che, pure lui (lo 0-0), ha un faccia molto stupita. E allora c'è il pezzo di vita in più, quello di cui il Brasile non aveva bisogno e che il Paraguay non sperava neanche di vivere. E pure quello finisce 0-0, dopo mezz'ora di superiorità brasiliana.
E allora si battono i rigori, che però non hanno niente a che fare con la vita. La vita è tutta in movimento, è una corsa continua, è salti, scivolate, cross precisi e colpi di testa. Non ha niente a che fare con una palla, posta a 11 m dal centro della porta, che si calcia senza alcun disturbo. Insomma, giocarsi lo scopo della vita in questo modo può sembrare alquanto ingiusto, è più fortuna che bravura. E infatti i teologi, cioè i telecronisti, quest'affare qua lo chiamano proprio "lotteria dei calci di rigori". Insomma, dopo che hai passato una vita a far vedere che sei molto più bravo degli altri, affidare tutta la faccenda al caso può risultare una scocciatura, o no?
martedì 6 settembre 2011
vetri
Aspettate un attimo. Due righe giusto per dire che è finita l'estate e tutto sta ricominciando. Sì, certo, lo so che lo sapete già. Sì, so anche che voi sapete che io so che lo sapete. E potremmo andare avanti così all'infinito. Però certe cose è meglio dirle, ne ho sentito il bisogno. Mica posso pubblicare un post così, a settembre, dopo l'ultimo che chissà di quand'era. Avrei potuto, però. Ecco, quel però mi ha fatto scrivere queste quattro righe. Per informarci che è iniziato settembre, che è un po' il lunedì dei mesi. Magari così vi auguro anche un buon inizio settimana. Ché sabato è lontano, circa 8 mesi.
Che poi, durante l'estate decumputerizzata, di post (posts?) me ne sono venuti in mente un po', però. Questo è fresco fresco, tipo di ieri (che non so quanto sia meglio: mi sa che i post sono più come il vino che come il pane. Vanno fatti stagionare. Anche se a pensarci è paradossale. Lasciamo, magari a un altro post, questo discorso,va.)
Mi è capitato un collegamento ipertestuale, e ve lo spiego. Stavo leggendo Due di Due, e in particolare questa frase qua:
Che ora modificherei non poco, ma per amor della filologia mi sono permesso di correggere solo "impgno" con "impegno". Molto simile, anche se De Carlo non si chiude fuori ma dentro, e non è una mosca.
Ma non solo. Il suo pezzo, che è una frase che uno dei due ragazzi protagonisti, Guido, dice al suo amico Mario, non solo è molto più corto ma anche più efficace. In tre periodi pone una questione e la risolve: 1.Sto dietro un vetro 2.Ho capito che devo romperlo (ma non è facile) 3.Basta immaginare di essere vecchi o quasi morti. E infatti poi Mario rompe il vetro: va da Margherita e le dà un biglietto con le parole di Just like a woman " tradotte in italiano, con qualche modifica per adattarle a lei". Avevo scritto "molto simile" (e già vi avevo immaginato storcere il muso davanti al pc), ma in realtà non c'entra niente. In comune c'è il vetro. Anzi no, il suo è rotto e il mio sta lì.
Invece io rimango a dare capocciate al vetro e fare battute di merda. Che però, secondo me, è più romantico.
Ora scusatemi, ma ho un vetro da frantumare.
Che poi, durante l'estate decumputerizzata, di post (posts?) me ne sono venuti in mente un po', però. Questo è fresco fresco, tipo di ieri (che non so quanto sia meglio: mi sa che i post sono più come il vino che come il pane. Vanno fatti stagionare. Anche se a pensarci è paradossale. Lasciamo, magari a un altro post, questo discorso,va.)
Mi è capitato un collegamento ipertestuale, e ve lo spiego. Stavo leggendo Due di Due, e in particolare questa frase qua:
" Lo so come ti senti. è come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Ho passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, finché ho capito che l'unico modo è romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti."e mi sono ricordato di qualcosa che avevo scritto tre anni fa, e in particolare questa cosa qua:
"E sbatto come una mosca sul vetro di una finestra, vedo quello che c’è dall’altra parte: il vetro è trasparente. Ma per quanto possa sforzarmi l’unica cosa che si possa ottenere in questo modo è un gran mal di testa. No, l’impegno non viene premiato. Ed è un peccato, perché tutto quello che desidero è dall’altra parte del vetro. E l’aria della stanza dove sono (rin)chiuso è sempre più rarefatta, opprimente…si respira sempre la stessa aria qui dentro, un giorno sa di illusione, un altro di paura, nostalgia, o anche di felicità a volte, ma mai si trasforma in qualcosa di buono. L’anidride carbonica è sempre la delusione. Delusione di ogni aspettativa. E ogni volta mi addormento con la consapovelzza di dover passare un altro giorno alla finestra, a sbattere la testa contro un vetro che mi separa da quello che voglio. La consolazione è che,essendo una mosca, dall’altra parte non può che esserci merda. Ma putroppo era solo una metafora."
Che ora modificherei non poco, ma per amor della filologia mi sono permesso di correggere solo "impgno" con "impegno". Molto simile, anche se De Carlo non si chiude fuori ma dentro, e non è una mosca.
Ma non solo. Il suo pezzo, che è una frase che uno dei due ragazzi protagonisti, Guido, dice al suo amico Mario, non solo è molto più corto ma anche più efficace. In tre periodi pone una questione e la risolve: 1.Sto dietro un vetro 2.Ho capito che devo romperlo (ma non è facile) 3.Basta immaginare di essere vecchi o quasi morti. E infatti poi Mario rompe il vetro: va da Margherita e le dà un biglietto con le parole di Just like a woman " tradotte in italiano, con qualche modifica per adattarle a lei". Avevo scritto "molto simile" (e già vi avevo immaginato storcere il muso davanti al pc), ma in realtà non c'entra niente. In comune c'è il vetro. Anzi no, il suo è rotto e il mio sta lì.
Invece io rimango a dare capocciate al vetro e fare battute di merda. Che però, secondo me, è più romantico.
Ora scusatemi, ma ho un vetro da frantumare.
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