martedì 20 dicembre 2011

Cronache universitarie I

Inauguro la rubrica 'Cronache universitarie', così, giusto per far capire in che stato versa l'università italiana. Almeno la facoltà di lettere e filosofia de La Sapienza. Non interesserà nessuno, ma, a pensarci un attimo, nessuno legge questo blog. Quindi, se i sillogismi paradossali non m'ingannano, questa rubrica interesserà chi legge questo blog. Sono al terzo anno, ne è passato di tempo da quando ero una matricola disorientata che si aggirava per la facoltà di lettere. Ora sono quasi un laureando disorientato. Inizio dal principio.

venerdì 9 dicembre 2011

Piazza Navona, sotto Natale.


Piazza navona, sotto natale, è ‘n’ vero inferno
Nun te poi move, tanta è la gente
Ce sta er rischio, te lo giuro, che ce rimani pe l’etterno.
Voresti tanto usci’ ma ‘n poi fa niente.


Stai lì che cerchi la sarvezza,
‘na via de fuga, ma barcolli,
ce sta ‘n pericolo a oggni artezza,
Dalla sòla de le scarpe a la punta d’i capelli.

Occhio ar piede, a ‘ndo lo metti,
nun l’hai visto er sampietrino?
Qua si caschi ‘n te riassetti,
te travorgono cor passeggino.

Perché la mamma, mica fessa
È uscita apposta cor neonato,
Pe fasse largo tra la ressa
Sta a tallona’er marcapitato.

Occhio ar cane! Nun l’hai visto?
È minuscolo, pare ‘n sorcio
Pure lui, povero cristo
come te cerca ‘no scorcio.

Poi sta’ attento ar palloncino;
Nun lo vedi ma tie’ presente
Che là sotto c’è ‘n bambino
lui procede spensierato tra la gente.

Ar centro la scultura der bernini:
Gange, nilo, rio e danubbio
La fontana dei quattro fiumi.
Ma so’ cinque, senza dubbio:

che diresti, se salissi sulle rocce
e guardassi sulla piazza?
“qua c’è ‘n fiume de capocce
d’ogni specie e d’ogni razza!”.

domenica 4 dicembre 2011

Urgenza

- Ciao.

- Ciao.

- ...

- ...

- ...

- Devi dirmi qualcosa?

- No, ma ne sento il bisogno.

- Di cosa?

- Di dirti qualcosa.

- E dimmela.

- Non posso, non esiste.

- Secondo te ha senso quello che stai dicendo?

- Sì.

- Quale?

- Non lo so.

- Mi fido...

- Grazie.

- ...

- ...

- Beh, allora ciao.

- Non ho finito.

- Ah, pensavo...

- No.

- Allora rimango qui ad ascoltarti.

- ...















sabato 3 dicembre 2011

Dov'è il caricabatterie? Saranno rimasti 5 minuti di autonomia. Vabbeh almeno ti sei acceso. Cazzo quanto ci metti però...dai! Ah cazzo, il quadernino, devo trovare il quadernino. Intanto accenditi computer di merda, quando torno ti voglio acceso. Ah eccolo. Dai computer, dai. Perfetto. 2 minuti: cazzo. Internet, Internet! Perché google chrome mi apre questa cazzo di pagina? Home. Blogger. Nuovo post. Cazzo dai che non c'è tem


lunedì 28 novembre 2011

è notte, e non c'è nessuno in giro. Scendo con la macchina per una curva stretta  che termina su una via spesso trafficata. Un pezzo di strada che odio, vicino casa mia, dove non manca mai di palesarsi l'inciviltà di certi guidatori. è una una curva quasi sempre in discesa, nel senso che non succede quasi mai che una macchina salga. Ma può succedere, quindi non si può sorpassare, è pericoloso. Proprio l'altro giorno un' NCC, grande e grosso, visto che si era tutti in fila sulla curva per immettersi sull'altra via piena di macchine, ha pensato di superarci invadendo l'altra corsia. Nello stesso momento ha svoltato, per salire, un motorino che si è trovato l'enorme parallelepipedo nero di fronte. Una volta superato questo punto c'è un semaforo, che data la quantità di macchine, non si riesce mai a vedere solo verde. Passato il semaforo, e l'incrocio che regola, devi fare i conti con le macchine parcheggiate in doppia e tripla fila davanti a un bar che, per questo, non ho mai sopportato. Ma anche perchè a giudicare (sì, a giudicare) dalle macchine e dalle persone che sono fuori non deve essere un bel locale. Spesso ad intralciare il traffico sono macchine della polizia, vanno lì, perché per loro è gratis, mi ha detto un giorno un mio amico, dopo le mie colorite proteste.

venerdì 25 novembre 2011

Io sto andando a lezione, passo accelerato del ritardatario (quarto d'ora accademico già passato). Vado di fretta, e se sto pensando non me ne accorgo, nemmeno se ho qualche espressione particolare. Guardo per lo più a terra, sul brecciolino nemico dei frettolosi. Mi accorgo però che nella direzione in cui sto andando, a pochi metri da me, c'è una mano con dei volantini. Cambio leggermente traiettoria. Mentre lo faccio vedo l'appendice della mano, un braccio con tanto di busto e viso. Una ragazza, che guardandomi tende la mano cartacea verso di me, e pronuncia una frase che non ho mai sopportato. Il fatto che abbia parlato significa che quelli non sono dei semplici volantini prendi e getta, gratuiti, che esauriscono in sé stessi (e in genere in poche righe) il loro motivo d'essere, senza eccessive perdite di tempo, con il solo inconveniente di trovare un secchio. Il fatto che lei abbia interagito con te significa che il volantino è un pretesto con immagini che impietosiscono o disgustano, che ti sta per spiegare l'iniziativa di cui fa parte e di cui si è resa promotrice, che ti sta per chiedere dei soldi per una giusta causa.
Liberi di farlo, anche se vado di fretta e se hai visto che ho cambiato direzione, ma il fatto che tu mi abbia detto "dai, però fammi un sorriso", mi farebbe venire fretta anche se il tempo si fosse fermato. E che tu poi abbia aggiunto "non ci sto provando con te, eh" ha definitivamente allontanato ogni speranza che io mi fermi anche trenta secondi ad ascoltarti.
Avere fretta è una buona giustificazione all'essere intolleranti.

Una donna apre la portiera della sua macchina di colpo, molto velocemente, senza notare una moto che è costretta ad inchiodare per evitare lo scontro. Il motociclista guarda la donna attraverso il vetro del suo casco, con uno sguardo che solo i motociclisti che hanno subito un torto stradale sanno fare. La donna si giustifica:
- Beh, se vado di fretta ci sarà un motivo.

domenica 20 novembre 2011

frastornati

Affacciandosi dal quinto piano di un palazzo, a due passi da Piazza Gioacchino Belli, dove abita una mia amica, si ha una straordinaria vista di Roma - delle vie di sampietrini, delle facciate di vecchi palazzi, dei tetti delle case trasteverine fino al cupolone e alle quadrighe in cima al Vittoriano- e del suo cielo, terso in un limpido pomeriggio di novembre. 
Non ho mai visto così tanti stormi in vita mia. Erano almeno una decina, più o meno corposi, anzi, vista l'unità del corpo, più o meno grandi. Uno spettacolo, nel senso di puro intrattenimento; sembrava una vera e propria esibizione nei cieli della capitale, una manifestazione di chissà che cosa. Un cielo gremito di uccelli acrobati, mi avrebbe scritto più tardi la mia amica. è incredibile come riescano a muoversi tutti assieme, come ognuno abbia un suo posto, che mantiene spostandosi, un suo movimento, che non sbaglia mai. è incredibile come tutti lo rispettino, e disegnino un'armonia senza apparente motivo. è incredibile come riescano ad essere così tanti e formare un corpo solo, come riescano ad essere così veloci senza scontrarsi mai.
Mentre io e la mia amica siamo alla finestra, a fumare una sigaretta, lei con un libro in mano, chiedendomi aiuto su un passaggio che non le è chiaro, e io con un cellulare, chiedendole aiuto per trovare le giuste parole di un sms. E li osserviamo affascinati.

- Hai presente quel racconto di Calvino sugli storni che sta in un libro che però non mi ricordo...Palòmar!
- Pàlomar, casomai. No, non ce l'ho presente.


venerdì 18 novembre 2011

Ho un quaderno che avevo.

Pochi giorni fa stavo per scrivere un post. Avrei scritto che avevo un piccolo quaderno, quindici per dieci, di carta riciclata, poche pagine totalmente bianche e la copertina nera, tutta nera eccetto una scritta argentata: "Quaderno", e due righe, sempre argentate, tracciate sotto la scritta, a cui tenevo, quando ancora lo avevo. Avrei scritto che usavo quel quaderno per rendere materiali, in qualche modo, delle idee che mi venivano. Scrivevo la data, dicendomi ogni volta che non aveva importanza (ma almeno capivo il confine tra un pensiero e l'altro), e appuntavo sotto qualche parola. Usavo sempre la stessa penna, attaccata al quaderno che mettevo in tasca ogni volta che uscivo. La scrittura però era sempre diversa, una volta avevo scritto in autobus e le buche si vedevano sulle lettere, una volta seduto sui gradini della facoltà, un'altra sdraiato su un prato, o in mezzo alla notte con una grafia ancora addormentata. Avrei scritto che alcune di quelle parole  erano diventate dei post (ad esempio quello sulle cicatrici del tempo, e qualche altro). Che era una strana sensazione quella di stare fermo in mezzo a tanto movimento, a tante persone, in metro, in autobus o nel viavai dell'università, a scrivere, cercando di fermare in poche e tremolanti parole un pensiero, da rielaborare con calma. Che non sempre riuscivo poi a decifrare la mia scrittura, asino di natura, e mi rimproveravo, per come avevo scritto ma soprattutto per come non riuscivo a leggere. Ma avrei scritto soprattutto che un giorno, quel quaderno, me lo sono perso. Che l'ho cercato, che ho chiesto se qualcuno l'aveva visto. Che non ne ho preso un altro, tanto avrei perso anche quello, mi sono detto. E poi, a che serviva scrivere quattro minchiate ogni tanto? tanto le leggo solo io, già le so, non ho bisogno di farmi una foto per guardarmi. Poi avrei scritto che sono passate settimane e poi mesi. Che non ho più pensato a quel quaderno, né a un suo sostituto.
Oggi, prendendo un libro in camera mia, quel quaderno mi è cascato addosso. E tutte le cose che avrei scritto le ho scritte lo stesso.

lunedì 14 novembre 2011

Allegoricamente

La notte c’era stato uno di quei temporali che sembrano voler entrare a tutti i costi dentro casa, scuotendo le serrande e picchiettando sui vetri, per allagare sogni e pavimenti. La mattina, fuori dalle finestre sprangate, minacciosa o tranquillizzata, è arrivata in silenzio: il suo umore è un mistero, al di là delle mura.
Quando si alza è consapevole di quello che è successo, dell’impetuosità della notte e della ritrosia velata della mattina. Potrebbe scoprirla in un attimo, affacciandosi da una finestra o uscendo in balcone. Ma preferisce accendere la luce. Si veste, fa colazione, si lava. Nel giro di venti minuti è pronto ad uscire. Dal portaombrelli, all’ingresso, fa capolino un manico, su cui si posa il suo sguardo mentre abbassa la maniglia della porta. Si scuote dagli occhi quell’immagine e chiude la porta dietro di sé.
Odia porsi domande quando teme la risposta.

giovedì 27 ottobre 2011

La bellezza mentale dello zero

Lo zero è senza dubbio il numero più bello. Qualsiasi studente di matematica ve lo può dimostrare: è sempre una grande gioia quando c'è uno zero. Ma non voglio parlare di matematica.
Come prima cosa va detto che lo zero è  uno numero pari. Non so se lo sia davvero, non so se abbia senso parlare di pari o dispari con lo zero. Però, modestamente ho prodotto ben tre dimostrazioni della parità dello zero:
1.
Si prendano due persone: A e B. Si faccia passare per le loro mani una qualsiasi cosa in quantità zero, ad esempio zero libri. Si effettua una equa spartizione dei zero libri fra A e B. Entrambi rimarranno con una quantità uguali di libri: zero. Questo dimostra non solo che lo zero è un numero pari (se si divide in due si hanno due parti uguali) ma anche che è un numero strano (se si divide in due si ha la stessa quantità di prima)

2.
Si prendano due persone: A e B. Gli si facciano posare i zero libri di prima, anzi possono anche tenerli, tanto le mani rimarranno comunque libere (non è assurdo lo zero?). Li si faccia giocare a paro o disparo e si dica a entrambi di buttare zero. Chi aveva scelto paro vincerà.

3.
Contando si nota che la disposizione di numeri pari e dispari è alternata ( uno pari, uno dispari, uno pari, uno dispari ecc...) fino all'infinito. Uno è disparo: zero e due saranno pari.


Come si evince dalla prima dimostrazione lo zero è un numero speciale: potete dividere con tante persone quante volete qualsiasi cosa, e rimarrete tutti con la stessa quantità di prima! L'altruismo dello zero è sorprendente. Ma lo zero è un gran bel anche per un altro motivo: qualsiasi persona al mondo può avere qualsiasi cosa in quantità zero.
Io, ad esempio, avevo zero bellissimi elefanti africani, che vivono in camera mia. Ne andavo fiero, non sporcavano, non facevano rumore, e mia madre non si era accorta di niente. Ero fiero di loro; li facevo conoscere ad ogni mio amico che invitavo a casa mia.

- Vuoi vedere i miei elefanti africani?
- O mio dio, dove li tieni?
- In camera mia
- E quanti sono?
- Zero!
- Coglione
- Vuoi vederli?
- No.
- Beh, veramente ce li hai davanti tutti e zero.

Però, a lungo andare ho scoperto che questa cosa dello zero non è una gran cuccagna. Serve solo per robe mentali, tipo la matematica, o la scrittura.
L'ho scoperto quando ho invitato a casa una ragazza di cui ero innamorato. Ovviamente le ho chiesto se voleva vedere i miei zero elefanti africani. Ha risposto che ne sarebbe stata contentissima, li ha visti, e mi ha detto che avrebbe tanto voluto averne uno.
Tutte le giornate, o quasi, finiscono nello stesso posto: a letto. E nello stesso modo, addormentandosi. A letto, un po' come quando ti lavi sotto la doccia o nella vasca, o fai la cacca sul cesso, ti metti a pensare: alla giornata passata, a quella futura, alla tua vita, all'esistenza in generale. Credo che la maggior parte delle intuizione più geniali siano avvenute su una tazza, sotta la doccia, o in un letto.

Toc Toc

- Occupato.

- Immanuel, passi le ore chiuso in bagno! Serve anche agli altri!

- Piantala con questi giudizi sintetici a posteriori: sto cacando.

__
- Oh!

- Eh..

- Guarda come dorme Isaac, sotto quell'albero.

- Tiragli qualcosa.

- Ho solo una mela.

- Vai!
___

- Archimede! Credo che la vasca sia piena.

- Per tutti i numi, fino all'orlo!

Splash

- Eureka!
___

Insomma ieri sono andato a dormire, come sempre. E riflettevo sul fatto che la terra prima o poi scomparirà, con tutto quello che c'è dentro: la divina commedia, il colosseo, le canzoni di Frank Zappa. Non esisterà più niente di tutto questo. è uno di quei pensieri che ti fanno sentire insignificante, come quando pensi alla divina commedia, al colosseo, o alle canzoni di Frank Zappa. Insomma, da non credere: noi stiamo qui a scapicollarci ogni giorno e poi non rimarrà nulla. Tutto risucchiato dal sole (nella migliore delle ipotesi). Certo, Shelley aveva accennato al problema con Ozymandias. Però insomma, lui (Ramses), non c'è più mentre noi siamo qui, viviamo ora e sostanzialmente ce ne freghiamo di chi c'era e di chi ci sarà. Però a un certo punto tutto finirà, si sgretoleranno miliardi di anni di vita e migliaia di anni di civiltà. La vita mi è sembrata essere piuttosto irrilevante, mentre ero lì nel mio comodo letto. Ma poi ho pensato che forse il pensiero che tutto prima o poi finirà non è nichilista come può sembrare appena formulato. Di fatti l'ho pensato poi. Altro che irrilevante, proprio perché finisce tutto ha più senso. Immaginate una partita di pallone che duri all'infinito. Che senso avrebbe fare gol ("siamo sul punteggio di 20498384 a 1909540, giunti ormai all'anno 2476, mese nono, giorno settimo, ora quarta, minuto quinto e secondo sesto. Manca un'infinità di tempo, più recupero, che prevedo sostanzioso"). Eh no, caro sublime matematico, stavolta non mi freghi. Tutto finirà, tutto ha più senso, anzi ha senso. Ora dormo, ché domani è un altro giorno, mi devo svegliare presto e ho un sacco di cose da fare.

giovedì 13 ottobre 2011

Come sempre

Stava fumando, come al solito a quell'ora, con le gambe dritte, la schiena incurvata e i gomiti poggiati sul muretto del terrazzo. Era da poco passata mezzanotte e il quartiere, con tutti quei palazzi che si vedevano da lì, dal quarto piano, sembrava addormentato già da un pezzo. Come al solito. Però pensava che era strano, che in genere anche a quell'ora si sentono molti rumori, la televisione a volume altissimo del dirimpettaio, per esempio, o la madre che urla al telefono contro il figlio che non vuole rientrare, e il signore di qualche pian terreno, con la sua risata obesa. Era strano che non ci fosse nulla a distrarlo, nemmeno il cane del vicino, che abbaia tutte le notti. Si sentiva solo, ogni tanto, il rumore in lontananza di qualche motorino, che passava per quella strada laggiù, e che si faceva via via più fioco, mano a mano che si il motorino si allontava. Così il silenzio si riposava sul quartiere come un enorme lenzuolo disteso che cade dall'alto, e tocca prima le cime dei palazzi più alti per poi adagiarsi su tutti gli altri, fino a coprire la strada.
Pensava che stava lì ogni sera, che fra un po' di tempo sarebbe stato freddo, a quell'ora, e altro che maglietta e pantaloncini. Pensava che era stupido ripetere ogni volta lo stesso gesto. Che proprio queste erano le cose che lo annoiavano, che per questo era insoddisfatto. Che odiava tutto ciò che si ripeteva o che durava troppo a lungo. Per questo aveva abbandonato romanzi ed era passato a libri di racconti, racconti brevi se possibile, era persino annoiato dalla sua immagine, e per questo aveva cercato di costruirsene un'altra. Per questo si buttava senza pensare nelle novità, logore già il giorno dopo. Per questo sentiva il bisogno di scrivere certe cose che appena leggibili lo avrebbero nauseato.  Per questo avrebbe voluto viaggiare, pur sapendo che lo spostamento del corpo non avrebbe coinciso con quello della mente. Per questo aveva voluto conoscere quelle persone che lo attirivano così tanto, con cui ora non uscirebbe mai.
Ma quella notte era strano, era diverso. Poggiò le mani sul muretto, ritrovò la posizione eretta con fatica: gli facevano male i gomiti e la schiena. E cercò di capire come faceva, quella notte, ad essere così diversa, e così tranquilla.

martedì 11 ottobre 2011

livella

Sono cinque anni, forse un po' di più, che vado in quella piscina, da ottobre a giugno, almeno quattro giorni la settimana. Si può dire che conosca bene gli ambienti, il parcheggio, la segreteria all'ingresso, le due rampe di scale che portano al corridoio, le gigantografie di sportivi  appese al muro e lo spogliatoio. Si può dire che li conosca bene, ma non è del tutto giusto. Quest'anno, in estate, hanno ristrutturato lo spogliatoio, che ha cambiato colore e struttura. Con ottobre è arrivato il primo allenamento. Ho parcheggiato, ho sceso le solite scale, ho percorso il solito corridoio, ho aperto la solita porta e sono rimasto fermo sull'uscio. Mi sono sentito disorientato. Non ero affezionato allo spogliatoio di prima, mi era del tutto indifferente, però c'ero abituato. Nonostante mi fosse del tutto indifferente e ci fossi abituato, me lo ricordo nei dettagli, ma solo perché lo vedevo molto spesso, perchè usavo quelle panche per poggiarci la borsa, i vestiti e per sedermi mentre infilavo i calzini. Possiamo non far caso ai dettagli, pur vivendoci a contatto. Mi spiego meglio: il pavimento dello spogliatoio aveva, subito prima di uscire dalla porta per andare in piscina, un dislivello. Fatto apposta, una piccola salita, alta una decina di centimetri e lunga neanche un passo, praticamente un piccolo scalino. Me ne sono accorto quest'anno, perchè quel dislivello non c'è più. Me ne sono accorto perchè in quel punto, inconsciamente, il mio piede di turno che si trova ad affrontare quei 30 centimetri ora in piano, si comporta come se lì ci fosse uno scalino, si aspetta di trovare il terreno dieci centimetri più in alto.

- fra' , ma c'è qualcosa di strano qua vero?
- sì, l'altr'anno c'era una salitina.

Mi ero abituato a quel dislivello tanto da superarlo inconsciamente, tanto da non rendermi più conto che c'era. In un'ipotetica descrizione dettagliata dello spogliatoio l'avrei sicuramente dimenticato, pur passandoci sopra così spesso. Paradossalmente, la sua assenza mi ha fatto ricordare di lui.
Più conosciamo i dettagli, di un oggetto o di una persona, più possiamo dire che è nostra.

giovedì 6 ottobre 2011

La memoria poetica

Da quando ho letto l'insostenibile leggerezza dell'essere posso dare un nome a certi ricordi. Infatti Kundera parla di una memoria poetica, quella che registra ciò che ci affascina, che ci commuove, che rende bella la nostra vita. Vi racconto una storiella. Ero in un'altra università, altra rispetto a quella cui sono iscritto, a seguire un convegno che un professore ci aveva caldamente consigliato durante le  sue lezioni. C'erano quindi molti miei compagni di corso, alcuni li conoscevo di persona ("eih, ciao come stai? visto che robba 'st'università? pare 'n'ospedale! poi boh, 'sto sole non scalda."), altri di vista- e li riconoscevo- ("ciao..."), altri non li ricordavo pur avendoli visti ("hai visto chi c'è?", "chi, quello?", "eh!", "beh chi è?", "dai, l'avrai visto un milione di volte."). Durante la pausa parlavo con una persona che conoscevo di vista, e che ricordavo. Ad esempio (uno dei tanti che potevo fare), e glielo ricordai, eravamo seduti vicini quando, l'anno prima, avevamo sostenuto insieme un esame scritto, e mi ricordavo anche che mi chiese la risposta di una domanda. Anzi, che io suggerii quella risposta a quella domanda. Non si ricordava di quell'esame, nè di me. Non pensai che la memoria poetica ricorda ciò che ci affascina, che ci commuove. Non pensai che raccontandoglielo mi stavo esponeno. Non avevo alcun motivo per ricordare quell'insignificante evento di così tanto tempo fa. Era normalissimo dimenticarsene e così era successo a lei.

-"oh mio dio, ma come fai a ricordarti queste cose?"
é la memoria poetica. Così avrei dovuto risponderle otto mesi fa.

giovedì 29 settembre 2011

150 anni portati male

- Che studi?

- Il ruolo dei poeti nel Risorgimento.

- Ah-ah...e che facevano? andavano a combatte?

Tanto siamo pure in tema perché è ancora 2011, e quindi ancora centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. Perché l'Italia, nonostante tutto, è unita. Ancora.
Okay, ci può stare che i letterati (poeti, scrittori, ma anche studenti di lettere e insegnanti) siano presi poco in considerazione quando si tratta di affrontare problemi pratici, che vanno dall'aggiustare una lampadina a combattere una guerra. Però c'è stato un periodo in cui non è stato così, e non tutti lo sanno. Durante il risorgimento non lo è stato. Molti poeti, ora poco conosciuti a dire il vero, non solo scrivevano poesie patriottiche in cui "urlavano" all'armi all'armi!, ma poi quelle armi le prendevano e andavano a combattere. A parte alcuni casi: come immaginarsi Leopardi alle prese con un fucile mentre combatte contro gli austriaci? Molto più consono immaginarsi le risate ironiche suscitate dai suoi versi: L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io. Come insegna Corrado Guzzanti, Leopardi morirà di gobba, non certo combattendo. Per fare qualche esempio, tra i più noti: Ugo Foscolo si arruola nella Guardia Nazionale e poco dopo rimane ferito a Cento, poi è arrestato perché ritenuto spia austriaca, partecipa alla battaglia di Novi, rimane di nuovo ferito nella battaglia per la difesa di Genova; Ippolito Nievo partecipa all'insurrezione di Mantova, alla rivolta di Livorno, partecipa all'impresa dei mille con la nomina di "intendente di prima classe", affondò con la nave che riportava i documenti della spedizione dei mille; Berchet partecipa ai moti insurrezionali del 1821; Goffredo Mameli, da subito (anche perché non ebbe molto tempo) fu seguace di Mazzini, partecipa alle cinque giornate di Milano. Muore in seguito alle ferite riportate nella battaglia per la difesa della repubblica romana, il 6 luglio del 1849. Due mesi dopo avrebbe compiuto ventidue anni.

- Sì, in effetti andavano a combatte.

Ma, a pensarci bene, il ruolo più importante lo ebbero, se così si può dire, nella teoria e non nella pratica (come stereotipo vuole). Con la miriade di inni, poesie, canzoni, che scrissero in tempo reale, durante gli infervorati anni del risorgimento italiano. Quindi forse la risposta più corretta sarebbe:

- Sì, in effetti andavano a combatte. Ma soprattutto scrissero un sacco di poesie.

Un libro molto interessante, sul tema, è quello Alberto Mario Banti: La nazione del risorgimento. Ve lo consiglio.

sabato 24 settembre 2011

Istantanee replicazioni

In esercizi di stile di Raymond Queneau si parla della famosa foto di Bresson. Infatti il pittore Pierre Alechinsky, in occasione di una mostra in cui testi letterari venivano abbinati agli scatti di Bresson, ha avanzato l'ipotesi che la famosa foto ritragga proprio l'autore degli esercizi, Queneau.
Dietro  Gare Saint-Lazar
Questo perché il luogo dove l'uomo, dal cui punto vista sono narrati quasi tutti gli esercizi di stile (la stessa storia "banale" raccontata in novantanove modi), vede per la seconda volta un ragazzo è proprio la stazione di Saint-Lazare. Nel libro è spiegato che la presenza di Queneau nella foto è possibile (era a Parigi al momento dello scatto e il suo studio è vicino alla stazione) ma poco probabile. Quanto quella di essere tu in una foto scattata vicino al tuo posto di lavoro. Comunque questa foto è una delle mie preferite, forse perché è stata anche una delle prime a rimanermi impresse. Probabilmente la vidi da bambino su un libro di fotografie comprato da mio padre. Ricordo che mi colpì, e non mi chiesi perché. E non lo saprei dirlo con certezza neanche ora. Ma ci provo.
Mi piace perché sembra un aggroviglio di coincidenze. Incredibilmente casuale. Perché ogni particolare sembra lì apposta, non c'è nulla di inutile. Si sa che le fotografie immortalano un istante, irripetibile. E questa istantanea ripete  al suo interno l'attimo che non ci sarà più, tramite riflessi naturali e artificiali. Lo specchio d'acqua divide a metà la fotografia, e moltiplica l'immagine. La sagoma dell'uomo che sta correndo è replicata sotto di lui, ma anche sopra, notando il manifesto sullo sfondo che ritrare un'altra figura nella stessa posa dell'uomo (anche il manifesto è replicato dall'acqua). Di manifesti in realtà ce ne sono due, uguali e attaccati (uno vicino all'altro), ma di quello più a destra dei due ne è rimasta metà, l'altra sembra sia stata strappata. C'è un altro manifesto però, anzi altri due, sempre uguali e sempre attaccati (uno sopra all'altro: variazioni sul tema della replica). C'è scritto "RAILOWSKY",  e non "BRAILOWSKY", il pianista in concerto a Parigi: anche una parte di questo manifesto è stata strappata. E così è rimasto RAIL-OW-SKY, ferrovia e cielo. Il cielo sotto cui si svolge l'istante, e sopra al quale è replicato. E la ferrovia: quella scala gettata sull'acqua dalla quale sembra provenire, come un treno in corsa, l'uomo.
Un istante dopo l'uomo sarà atterrato nella pozza, l'immagine replicata nell'acqua si dissolverà. E avrà ragione l'altro uomo, quello sullo sfondo, che dà le spalle all'attimo.

venerdì 23 settembre 2011

Eternamenti

Ieri ho visto una fotografia, scattata un paio di mesi fa. Anzi mi sa due mesi precisi. Nella foto ci sono io, seduto, il corpo è di profilo e il viso guarda nella direzione in cui punta l'obiettivo della macchina fotografica: verso la cartina appesa al muro alla mia sinistra. Sopra il tavolo, davanti a me, c'è il computer, due o tre guide della Croazia, un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri.
Dicevo: ho visto questa foto ieri al pc, seduto alla scrivania della mia camera. La vacanza che stavo progettando col mio amico è stata consumata, siamo stati nelle città che avevamo segnato con la matita sulla cartina, ora siamo tornati a casa.
Ieri sulla scrivania, oltre al pc, c'era un pacchetto di tabacco, uno di cartine e uno di filtri. Gli stessi, ma altri.
E questo mi ha messo un po' di ansia.

giovedì 22 settembre 2011

Avanti un altro che c'è poco tempo

Cosa dice la protagonista della canzone al suo amato?
L'altro giorno ho visto un programma che si chiama Avanti un altro. È uno di quei programmi dove vengono poste domande di "cultura generale", di cui abbonda la tivì italiana verso le sette di sera. Non mi sono mai piaciuti questi programmi (dove a detta di molti "si imparano un sacco di cose interessanti") per vari motivi. A parte per l'idea di fondo che è sapere qualcosa per vincere soldi (e per le lacrime, le grida, i salti dei concorrenti che riescono nell'impresa).
Innanzitutto la cultura (se così si può chiamare, viste alcune delle domande poste) non è affatto generale, al contrario. Sono domande dettagliate che propongono una cultura dettagliata, frammentaria e quindi incompleta. Se volessi imparare cose interessanti (e dal mio punto di vista, non da quello degli ideatori delle domande della trasmissione) comprerei un libro (dove le informazioni non sono date sotto la forma di risposte, chiuse).
L'impressione è quella di entrare in una mostra allestita con microscopici dettagli dei quadri: il dito della gioconda, un mostriciattolo di un quadro di Bosh, la lampada-bomba della Guernica. Tu giri e sei lì a chiederti dove sia tutto il resto. Non ti fai un'idea se non  a proposito dell'igiene delle unghie della Mona Lisa, della fantasia di Bosh, e dello strano arredamento che doveva aver Picasso in casa sua. Ma, si sa, lo scopo della tv non è fare cultura ma fare soldi.

E con Avanti un altro è evidente, per come tratta la merce, umana e culturale.
Il programma funziona più o meno così: c'è una fila di concorrenti (in piedi dietro un tornello, proprio come se fosse in fila alla cassa del supermercato: tutti sperano che il cliente che li precede faccia presto). Bonolis pone delle domande al cliente di turno in blocchi di tre, cioè su tre domande puoi fare un solo errore. Alla fine di ogni blocco superato peschi una provetta al cui interno c'è un foglio con scritta la cifra di euro che hai la possibilità di sommare al tuo montepremi superando il secondo blocco di tre domande. E così via finché il concorrente non decide di fermarsi, sperando che nessun altro avventore superi la sua cifra. Può anche capitare che a un concorrente vengano poste solamente due domande, nel caso in cui sbagliasse due volte consecutive, e allora : "Avanti un altro" dice Bonolis.È un susseguirsi vorticoso di volti che appaiono sullo schermo e vengono sostituiti rapidamente. Ad un certo punto della trasmissione inizia un count-down di 5 minuti: tutto avviene ancora più velocemente di prima: il supermercato sta per chiudere. Bonolis legge le domande come se stesse leggendo le controindicazioni di una medicina in uno spot pubblicitario. Il concorrente deve rispondere altrettanto velocemente, sbaglia, "avanti un altro", arriva l'altro, "e che mi dà pure la mano? si sbrighi c'è poco tempo" (non si saluta neanche più), "risposta sbagliata, la risposta esatta era l'altra perché nel 1545...eccetera..eccetera..vabbeh non c'è tempo".
A questo punto ho spento la tv.
Ecco succede questo: Bonolis ha iniziato a leggere sul suo monitor la pur breve spiegazione di una risposta e dopo tre parole ha detto "eccetera eccetera, vabeh non c'è tempo".

martedì 20 settembre 2011

fra intendimenti



- Buongiorno...


- Buongiorno!


- Mi dia 'il fatto quotidiano'


- Oggi non esce!


- Non le ho chiesto 'oggi', le ho chiesto il fatto...il giornale!


- Ah, 'il giornale'! Ecco a lei...


- No...non 'il giornale'. Il giornale che si chiama 'il fatto quotidiano'


- Ah, oggi non esce!


- Va beh ho capito...mi dia 'la Repubblica'


- Se vabeh...e chi so', Napolitano?

lunedì 19 settembre 2011

Aspettare

Parlerei un attimo di attesa. Tipo quando vorresti che ti arrivasse un messaggio che non arriva, e stai lì a guardare il telefono ogni 10 minuti. E quando poi ti arriva un sms il tuo sguardo si illumina. Che poi vai a leggere ed è l'offerta di una macchina da comprare a rate lustrali, o di un sacco di partite di calcio solo per te.
Roland Barthes scriveva così, in Frammenti di un discorso amoroso :
"L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio): per la stessa ragione io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea di dover uscire tra poco, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della madre, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano,senza far niente."

Bisognerebbe avvertire Roland che, come diceva non mi ricordo chi, l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela. Una frase che non è vera, dal punto di vista della storia. Ma dal punto di vista delle persone sì.
Mi spiego con un esempio:

prendiamo due persone, fittiziamente chiamate P. e P.. Per distinguerle useremo però l'iniziale del nome di uno, P., e l'iniziale del cognome dell'altro G., giacché anche i cognomi iniziano con la stessa iniziale, la G.

Ebbene, P. e G. sono molto amici e oggi pomeriggio sono usciti insieme per fare delle compere. Bisogna sapere inoltre che oggi P. si è svegliato con un incredibile desiderio di prendersi una cacata di piccione in testa,  mentre G., di una cacca in testa, non ne sente affatto il bisogno (e quando esce, con P. ad esempio, non pensa proprio ai piccioni). Verso le 16.00 un piccione svolazzava proprio sopra ai due amici. P. aveva adocchiato quel piccione e cambiava traiettora con lui come se fosse collegato al volatile con un filo, legato al naso. Infatti P. camminava, non senza incresciosi inconvenienti, a testa in sù per meglio seguire l'uccello.  Pareva volesse prenderla proprio in piena fronte. G. non capiva la situazione, che P. si esimeva dallo spiegargli, e tutti gli sforzi per convincere l'amico a guardare davanti a sé o quantomeno a tenere un andamento rettilineo risultavano inutili. Non solo, ma quando G. entrava in qualche negozio (erano usciti per fare delle compere) P. diceva che preferiva restare fuori; e G. doveva recuperarlo non senza fatica, dal momento che P. non si limitava ad aspettare fuori dalla porta, ma riprendeva l'inseguimento dal basso. Fatto sta che il piccione doveva aver cacato da poco perché per tutto il tempo in cui i due amici  hanno camminato insieme nessuno cacò sulle loro teste. P. e G. arrivano in piazza, si salutano, e ognuno prende la via di casa.
Conclusione:
-P., camminando ancora a testa in sù, starà pensando "mannaggia, oggi non c'è stato verso di farsi cacare in testa da quel piccione stitico del cazzo", e quando starà aprendo il portone di casa avrà senza dubbio il volto rabbuiato. Per P. non è successa una cosa che tanto aspettava che accadesse. Per lui è proprio non successa.

-G., camminando normalmente, starà pensando ai fatti suoi (probabilmente allo strano comportamento del suo amico P.) e quando starà aprendo il portone di casa e un piccione gli cacherà in testa avrà senza dubbio il volto rabbuiato. Per lui e per me è successa una cosa senz'altro spiacevole (per lui, perché gli hanno cacato addosso, e per me perché manda a puttane l'esempio).
Facciamo finta che il piccione non abbia cacato sulla testa di G.. Allora oggi nessun piccione avrebbe fatto la cacca né su P. né su G.; ma P. aspettava quella cacca quindi potremmo dire che, se a P. e a G. fosse chiesto di parlare della loro giornata di oggi, P. potrebbe dire "oggi un piccione non mi ha fatto la cacca in testa"; mentre a G. non verrebbe mai  in mente di parlare a proposito di un piccione che non ha fatto la cacca. Ovverosia, sempre fingendo che nell'esempio il piccione che proprio all'ultimo momento ha fatto la cacca su G. non l'abbia fatto, potremmo dire che tale piccione non ha fatto la cacca benché P. se l'aspettasse mentre a G. non gliene fregava un cazzo di quel piccione. (C'è da dire qualcosa su quel benché: in realtà il piccione non avrebbe fatto la cacca, punto. Senza benché e senza turbe di P.). Insomma sulla Gazzetta di Z. (Z. è la città di P. e G.) di domani non ci sarà scritto nulla a proposito del piccione. Quell'evento non è accaduto con buona pace di tutti.
Per questo la frase "l'unico modo per far accadere una cosa è non aspettarsela" non è vero dal punto di vista della storia. Nel senso che il piccione non ha fatto la cacca, anche se c'era G. che non se l'aspettava.
Ma dal punto di vista delle persone è vero. Perché se G. non si aspetta una cacata di un piccione allora non c'è motivo, per lui, perché quella cosa debba accadere e qualora non accadesse, come facciamo finta che sia, non ne sentirebbe la mancanza. Non sarebbe né successa, né non successa. Sarebbe mai esistita. 
Che poi, se andiamo a guardare bene quanto successo, P. si aspettava la cacata, ma quello che se l'è presa è stato proprio G.

Forse mi sono lasciato prendere un po' troppo dall'esempio, ma spero che abbia aiutato a capire.

Con questo non voglio affatto schierarmi dalla parte di chi non aspetta, anzi. Secondo me è molto più poetico percorrere strane traiettorie col naso all'insù. Anche se alla fine della giornata nessun piccione ti avrà cacato in testa.
Certo troppa attesa non fa bene, tipo Lucio Fontana, stanco di aspettare l'idea giusta per un quadro, ha sbroccato e ha squarciato la tela.
Lucio Fontana. Concetto Spaziale "Attesa".

domenica 11 settembre 2011

io...te...mio...tuo...che differenza fa?

Succede che durante un concerto piuttosto movimentato, sotto al palco, si poghi. Così ti trovi a spingere (ed essere spinto) a destra e a sinistra (anche contemporaneamente), a schivare persone lanciate a tutta velocità, a non riuscire a schivarle, a cadere per terra e farti rialzare dalla prima mano porta verso di te (che poi ti darà una pacca sulla spalla, a significare:"si riparte!"), quindi a fare comunella con un tipo mezzo ubriaco e mezzo brillo che ha deciso di sollevare chicchessia sopra la folla per poi passarlo alle mani alzate più vicine.
Però succede anche che il cellulare riposto nella tasca, nella baraonda generale, salti fuori per depositarsi a terra, là dove molto probabilmente in breve tempo passerà una gran quantità di piedi appartenenti a persone impegnate nelle suddette attività. Se sei fortunato te ne accorgi subito e, per quanto rischioso sia, decidi di abbassarti per cercare, nel buio, di recuperarlo. Un altro ragazzo si è accorto dell'accaduto e comincia ad aiutarti. Uno, in piedi, prova a deviare le persone che si lanciano nella direzione dell'altro, accovacciato a cercare. Poi, visti gli scarsi risultati della caccia, vi accovacciate entrambi, lasciandovi però senza difesa. Tra urla, spintoni e piedi imprevedibili trovi un pezzo del cellulare, poi l'altro, aiutandoti con la luce del tuo cellulare. Poi restituisci i pezzi all'altro ragazzo che ti dà un pacca sulla spalla, a significare: "si riparte!"


___
"Ah io sono contro la pena di morte! però se una cosa del genere capitasse a mio figlio!"
___

- "questo è mio!", "quello è mio!"...braccino corto che sei!

- ma non è vero, ti sto solo dicendo che quello è il mio maglione, che poi l'ho preso a mio nonno che non se la mette più perché gli sembra un pigiama. Che poi te la stai mettendo tu...anzi, mentre tu suonavi al citofono di casa "mia", fra l'altro senza avermi avvertito che arrivavi, stavo proprio per scrivere un intervento su questo

- su questo cosa?

- sul fatto che "mio", "tuo"... non ha senso, anche le persone intendo. boh hanno tutte la stessa importanza per me.

- non capisco

- volevo partire raccontando che l'altro giorno, a un concerto, in mezzo al pogo, è caduto il cellulare a un ragazzo e mi sono messo a cercarlo con lui mentre le persone ci calpestavano...però vabeh questo può sembrare buonsenso o che ne so...invece non l'ho fatto per buonsenso o generosità. L'ho capito perché quando mi ha ringraziato sono rimasto spiazzato anche se so che doveva sembrare normale...insomma poi volevo arrivare a dire che per me le persone sono tutte uguali...ma non nel senso della frase più banale del mondo tipo "siamo tutti uguali"

-  ...

- tipo in un mondo in cui tutti la pensassero così, se ti succede che stai con una persona, poi arriva un tipo e ti dice "uno di voi due deve morire, però tu puoi scegliere quale"...tu dovresti rispondere al tipo "tira una monetina". E non lo faresti per generosità...non so spiegarmi

- ma è brutto così

- boh, io la penso così

- non c'è lo spirito di sopravvivenza...sminuisci il valore della vita

- no, anzi. Dò lo stesso valore alle due vite. Perché una dovrebbe essere più importante dell'altra?

- Perché è la tua.

mercoledì 7 settembre 2011

La lotteria dei calci di rigori (una bozza pubblicata ora, non so perché)

Io non sono proprio d'accordo coi rigori. Prima era solo una sensazione. Come quando la pensi in un certo modo ma non te ne sei ancora accorto. Poi ci sono stati i mondiali in Sud Africa, nel 2010. C'è stato il quarto di finale Ghana-Uruguay. Succede che all'ultimo secondo dei tempi supplementari stanno pareggiando 1-1. Un gol ora sarebbe esiziale per chi lo subisca. C'è tempo solo per un ultimo attacco ghanese. La palla viene crossata al centro e dopo un batti e ribatti il portieri è fuori dai pali, un ghanese tira di testa e lo supera: la palla sta finendo in porta. Ma fra i pali ci stanno due giocatori uruguayani, uno di loro dà un pugno al pallone e gli impedisce di entrare. Mi viene da dire "era gol", non "sarebbe stato gol". Perché il condizionale non andrebbe bene, anzi non va bene, nel caso in cui la condizione non dovrebbe, non deve, essere presa in considerazione. E un giocatore che prende la palla con la mano sulla linea di porta, sapendo poi di essere espulso, non dovrebbe, non deve esistere.Però lo fa. è un fuorilegge. E infatti viene espulso. Rigore per il ghana.



Il rigore viene sbagliato, e si va ai famosi calci di rigore. 4-2 per l'Uruguay.

L'altro giorno ho visto il Brasile che prendeva a pallonate il Paraguay. Insomma, come dice quella battuta, il Paraguay, sulla carta, non ha possibilità di vincere con il Brasile, però si gioca sull'erba, e quindi non si sa mai. Comunque, in genere, le squadre che sulla carta sono molto più forti dei loro avversari vincono. In genere. Infatti l'altro giorno il Paraguay ha eliminato il Brasile dalla Coppa America.
Se ci fosse un dio del calcio e dovesse spiegare le regole ai giocatori prima che scendano in campo, secondo me, alla squadra del Brasile, avrebbe detto qualcosa di questo tipo: "il campo è il mondo, e non si può uscire. La vita dura 90 minuti e lo scopo della vita è battere il Paraguay. Come vedete è molto semplice: gli avversari sono molto più scarsi e voi avete la bellezza di un'ora e mezza. Che vi avanza pure. Però, per sicurezza, vi concedo anche un pezzo di vita in più, della durata di 30 minuti. Insomma, 2 ore per battere il Paraguay mi sembrano fin troppe."
Così il Brasile è sceso in campo e ha cominciato a perseguire lo scopo della sua vita. Il Paraguay neanche ci provava a perseguire il suo. Il portiere del Brasile non ha toccato un pallone per tutta la partita, mentre quello del Paraguay è stato il giocatore della sua squadra ad aver toccato il pallone per più tempo. Sembrava che il Brasile avesse capito male lo scopo: non battere l'avversario ma dimostrare la sua superiorità. Comunque, passati i 90 minuti, il risultato rimaneva 0-0. Che, pure lui (lo 0-0), ha un faccia molto stupita. E allora c'è il pezzo di vita in più, quello di cui il Brasile non aveva bisogno e che il Paraguay non sperava neanche di vivere. E pure quello finisce 0-0, dopo mezz'ora di superiorità brasiliana.
E allora si battono i rigori, che però non hanno niente a che fare con la vita. La vita è tutta in movimento, è una corsa continua, è salti, scivolate, cross precisi e colpi di testa. Non ha niente a che fare con una palla, posta a 11 m dal centro della porta, che si calcia senza alcun disturbo. Insomma, giocarsi lo scopo della vita in questo modo può sembrare alquanto ingiusto, è più fortuna che bravura. E infatti i teologi, cioè i telecronisti, quest'affare qua lo chiamano proprio "lotteria dei calci di rigori". Insomma, dopo che hai passato una vita a far vedere che sei molto più bravo degli altri, affidare tutta la faccenda al caso può risultare una scocciatura, o no?

martedì 6 settembre 2011

vetri

Aspettate un attimo. Due righe giusto per dire che è finita l'estate e tutto sta ricominciando. Sì, certo, lo so che lo sapete già. Sì, so anche che voi sapete che io so che lo sapete. E potremmo andare avanti così all'infinito. Però certe cose è meglio dirle, ne ho sentito il bisogno. Mica posso pubblicare un post così, a settembre, dopo l'ultimo che chissà di quand'era. Avrei potuto, però. Ecco, quel però mi ha fatto scrivere queste quattro righe. Per informarci che è iniziato settembre, che è un po' il lunedì dei mesi. Magari così vi auguro anche un buon inizio settimana. Ché sabato è lontano, circa 8 mesi.
Che poi, durante l'estate decumputerizzata, di post (posts?) me ne sono venuti in mente un po', però. Questo è fresco fresco, tipo di ieri (che non so quanto sia meglio: mi sa che i post sono più come il vino che come il pane. Vanno fatti stagionare. Anche se a pensarci è paradossale. Lasciamo, magari a un altro post, questo discorso,va.)

Mi è capitato un collegamento ipertestuale, e ve lo spiego. Stavo leggendo Due di Due, e in particolare questa frase qua:

" Lo so come ti senti. è come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Ho passato tre quarti della mia vita chiuso fuori, finché ho capito che l'unico modo è romperlo. E se hai paura di farti male, prova a immaginarti di essere già vecchio e quasi morto, pieno di rimpianti."
e mi sono ricordato di qualcosa che avevo scritto tre anni fa, e in particolare questa cosa qua:

"E sbatto come una mosca sul vetro di una finestra, vedo quello che c’è dall’altra parte: il vetro è trasparente. Ma per quanto possa sforzarmi l’unica cosa che si possa ottenere in questo modo è un gran mal di testa. No, l’impegno non viene premiato. Ed è un peccato, perché tutto quello che desidero è dall’altra parte del vetro. E l’aria della stanza dove sono (rin)chiuso è sempre più rarefatta, opprimente…si respira sempre la stessa aria qui dentro, un giorno sa di illusione, un altro di paura, nostalgia, o anche di felicità a volte, ma  mai si trasforma in qualcosa di buono. L’anidride carbonica è sempre la delusione. Delusione di ogni aspettativa. E ogni volta mi addormento con la consapovelzza di dover passare un altro giorno alla finestra, a sbattere la testa contro un vetro che mi separa da quello che voglio. La consolazione è che,essendo una mosca, dall’altra parte non può che esserci merda. Ma putroppo era solo una metafora."

Che ora modificherei non poco, ma per amor della filologia mi sono permesso di correggere solo "impgno" con "impegno". Molto simile, anche se De Carlo non si chiude fuori ma dentro, e non è una mosca.
Ma non solo. Il suo pezzo, che è una frase che uno dei due  ragazzi protagonisti, Guido, dice al suo amico Mario, non solo è molto più corto ma anche più efficace. In tre periodi pone una questione e la risolve: 1.Sto dietro un vetro 2.Ho capito che devo romperlo (ma non è facile) 3.Basta immaginare di essere vecchi o quasi morti. E infatti poi Mario rompe il vetro: va da Margherita e le dà un biglietto con le parole di Just like a woman " tradotte in italiano, con qualche modifica per adattarle a lei". Avevo scritto "molto simile" (e già vi avevo immaginato storcere il muso davanti al pc), ma in realtà non c'entra niente. In comune c'è il vetro. Anzi no, il suo è rotto e il mio sta lì.
Invece io rimango a dare capocciate al vetro e fare battute di merda. Che però, secondo me, è più romantico.
Ora scusatemi, ma ho un vetro da frantumare.
 


sabato 6 agosto 2011

Esaminato

A inizio luglio stavo preparando l'esame di filologia italiana. Fra le altre cose, in programma, c'era tutto l'inferno di Dante. L'unica persona con un po' di tempo e un bel po' di pazienza per ascoltarmi era mia madre. Lei tornava da lavoro nel pomeriggio e sapeva che verso le cinque mi sarei presentato da lei con il libro di Dante, o con lo schema dei canti. Il canto da analizzare lo sceglieva lei, o aprendo a caso l'inferno oppure, soprattutto dopo un po' di tempo dopo (quando il caso sceglieva sempre più spesso canti già letti), leggeva lo schema e con tono quasi pettegolo mi chiedeva di parlare di qualche tipo di peccatore in particolare. Quindi iniziavo a parafrasare e  spiegare e lei ascoltava volentieri, ponendo domande di tanto in tanto. A volte dovevo inseguirla con il libro nelle camere in cui andava, cercavo di intuire se mi stesse ascoltando mentre metteva a posto o cucinava; altre volte, ed ero molto più contento, si sedeva vicino a me e rispondeva al telefono solo per dire "ti richiamo dopo". Così dalle cinque alle sette, per due settimane, c'era la lectio dantis.
Una volta finito di parlare dell'inferno, sudato e appicicoso, andavo in terrazza a fumare. In condominio stavano facendo i lavori, quindi il suo perimetro era circondato di impalcature. C'erano impalcature anche su un lato,quello che sopra ha la soffitta, del mio terrazzo, e di mattina ci camminano gli operai, lasciando qua e là gli oggetti che hanno usato: una scala, una scopa, una bottiglia d'acqua... I vasi che stavano in terrazza ora sono tutti ammucchiati al centro, per lasciar libero il perimetro interno. Quindi, una volta finito di parlare di Dante, sudato e appiccicato, mi sedevo sul pavimento sporco del terrazzo, mi appoggiavo con la schiena sul muro senza intonaco e fumavo una sigaretta. Mia madre intanto aveva iniziato a fare le telefonate che aveva lasciato in sospeso e fra poco uscirà in terrazza, con le mani occupate da qualche oggetto, la spalla che spinge il telefono sull'orecchio, e mi lancerà un'occhiata allo stesso tempo bonaria e di rimprovero perché sto fumando. Certe mamme non accettano che i figli crescano. Io le risponderò "dopo Dante ci vuole". E in effetti, dopo aver parlato per due ore dell'inferno, ci vuole:
sono le sette di metà luglio, non fa troppo caldo o almeno, sudato come sono, quel poco vento che c'è riesce a rinfrescare e lo scenario di impalcature e di oggetti lasciati a riposare in attesa del giorno seguente è complice, e mi conforta. Mi chiedo come sarà quando avrò dato l'esame.
Poi è arrivato il 20 luglio e ho dato l'esame. Poi sono stato 10 giorni in viaggio, un po' in Croazia e un po' in Bosnia.
Ora sono tornato a casa. Mi siedo in terrazza a fumare. Hanno portato via gli oggetti e smontato le impalcature. I vasi sono ancora lì al centro senza più un motivo. Sembra il secondo tempo di un film che era finito già al primo. Senza attori e set, senza luci e suoni giusti. Immaginavo che dopo sarebbe stato così.
E io fumo a salve.

Una volta ho iniziato a spiegare il terzo canto a mia nonna: "allora ci sta Dante che sta per entrare nell'inferno, in cima alla porta ci stanno scritte parole poco rassicuranti infatti. Però c'è Virgilio che lo prende proprio per mano per farlo entrare". "Ma che è 'na barzelletta?" mi ha chiesto mia nonna.

Ci sono rimasto male

Tanto tempo fa, ci rimasi male. Ero in macchina, portato chissà dove da mia madre. Ci rimasi male perché la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Ci rimasi male perché l'edificio della memoria era mal progettato, e piuttosto fatiscente. C'erano delle stanze che, per quanto cercassi, non riuscivi più a trovare. C'erano stanze con porte difettose, e c'erano stanze ingannatrici che conservavano ricordi di cose mai accadute o accadute diversamente.
Ero in macchina con mia madre e ci rimasi male perché  la maggior parte delle cose che vediamo ce le dimentichiamo. Allora decisi di ricordarmi per sempre qualcosa che altrimenti sarebbe scomparso dalla mia vita. Un capriccio lecito per un bambino di otto anni. Ero arrabbiato con la memoria. Come si permetteva di dimenticare? A volte contro la mia volontà per giunta. Che diritto ne aveva? Mi guardai intorno, non troppo intorno in effetti: fissai gli occhi sulla macchina davanti a me. Lessi la sua targa e decisi di ricordarmela, per sempre. Avevo sfidato la memoria.

Mi chiedevo se sarei riuscito a ricordarla davvero. Quante erano state le cose che mi ero promesso, senza mantenere, di ricordare? Quante cose ben più utili avevo dimenticato? Decisi di riportala alla mente ogni tanto, per togliere la polvere dalle lettere e dai numeri che altrimenti sarebbero diventati illegibili. Iniziai a custodirla con cura in qualche camera della memoria.

Ora, però, di quella targa non so che farmene. è già un po' che ho deciso di non spolvelarla più, nella speranza che briciole e pezzi di ricordi che si sgretolano la ricoprano. Così che lo spazzino, passando di tanto in tanto a mettere in ordine, la porti via senza farci caso, la getti sbadatamente nel mucchio della spazzatura. Invece è ancora lì. Come se, al contrario, lo spazzino, obbediente al bambino di otto anni, passi ogni giorno solamente per lei, dia una lustrata a quella targa appesa ben in vista sul muro, mentre ricordi spezzati sono ammucchiati sul letto, altri sono diventati polvere fra le pagine dei libri, tacendo-necessariamente- di quelli portati via attraverso la finestra aperta dal vento, entrato e uscito come il ladro che è stato.

Così quando giro per quel fatiscente edificio in cerca di qualcosa di importante, quando mi chino a terra cercando sotto il tappeto, o salgo su una scala per cercare tra le pagine dei libri, sporcandomi e trovando nient'altro che cenere, briciole e polvere, l'occhio non può fare a meno di cadermi su quella targa, su quei numeri e quelle lettere nere su sfondo bianco. La cera passata dallo spazzino le dà un tocco decisamente pacchiano.

martedì 5 luglio 2011

L'avevo intitolato 'Jane Doe, uccisa da un poliziotto'

L'immaginazione e la realtà sono due cose diverse, e fin qui ci siamo. E uno si può immaginare cose che non avverranno mai o che non esistono, ma anche cose che esistono veramente e che quindi esistono per te due volte: un'immaginazione e una realtà. Quando uno sente legge qualcosa o ne sente parlare, se lo immagina. E, quasi sempre, la realtà si rivela essere una gran fregatura rispetto all'immaginazione. Perché la realtà non la decidi tu. Secondo me quest'affare dell'immaginazione è una può funzionare anche con le persone: meno conosci una persona e più ti piace, perché meno la conosci e più te la immagini. Stavo pensando questo quando mi sono ricordato di un pezzo di Barnum, un libro di Baricco, e di un pezzo che avevo scritto un po' più di tre anni fa su un altro blog. Il pezzo di Baricco è questo

[..] Dal gran bailamme di conati creativi e acrobazie dell’immaginazione, mi son portato via l’impressione di una inspiegabile stanchezza collettiva, e le benigne ferite di due ricordi. Il primo lo devo a un ispano-americano che si chiama Andrès Serrano. Espone alle Corderie, sezione Aperto ’93, parcheggio per artisti che forse sranno famosi, forse no, a vedere quel che fanno si spererebbe di no. Serrano scatta foto negli obitori. Un allegrone. A Venezia ne ha esposte quattro. Una si intitola Jane Doe,uccisa da un poliziotto. Sarà due metri per due. A colori,fondo nero. Di Jane Doe c’è solo la testa. Di profilo adagiata su un tavolo che non si vede. Capelli biondi, ricci, impastati di sangue secco. Sopra l’orecchio si intravede una ferita. È bellissima, Jane Doe. La prima cosa che ti sorprende è quella: è bellissima. Lineamenti perfetti, anche se il collo è color bruno, con tutto quel sangue rinsecchito sulla pelle. Sembra scolpita in un legno scuro. Non c’è nessuna smorfia di dolore, inchiodata lì dal flash istantaneo della morte. Togli il sangue, e potrebbe essere la pubblicità di una crema idratante. Giureresti che è viva, coi suoi riccioli appena usciti dal parrucchiere. Poi ti accorgi degli occhi. Non ci sono. Un gioco di luce, o forse è la morte che si è già messa a scavare. Dove cerchi l’occhio vedi solo un buco ero. È già un teschio, lì, Jane Doe. Tutta quella vita e tutta quella morte,insieme, in una faccia sola,io non le avevo mai viste. È una cosa che ipnotizza. E rende insopportabile non sapere niente altro, come l’hanno uccisa, forse per sbaglio, cosa aveva fatto? anche lei ha sparato? e quando è successo, e dove. Chissà che storia, quella di Jane Doe [...] 
Nel post avevo aggiunto che poi non avevo resistito e avevo cercato e trovato l'immagine di Jane Doe su internet. Che io me l'ero immaginata, ed ero soddisfatto, però volevo vedere com'era veramente. Fra le altre cose avevo anche scoperto che 'Jane Doe' è un nome che la polizia si è inventata per darlo alle persone che non sono identificate, e che negli USA dovrebbe suonare un po' come il nostro Mario Rossi, al femminile però.
Insomma l'immaginazione è una gran bella cosa, ma non può soddisfare come la realtà. Mi era venuta anche una considerazione più profonda, ma me la sono dimenticata, immaginatevela.
Ah, il veccio post finiva così: Click?


lunedì 4 luglio 2011

Delirio della razionalità

L'altro giorno stavo leggendo ad una persona un pezzo di 'Watt', che è un libro di Samuel Beckett. Più assurdo del teatro dell'assurdo. Talmente razionale da risultare irrazionale. Il pezzo mi è piaciuto moltissimo, ed era questo:

"La casa era immersa nell'oscurità. Avendo trovato la porta principale chiusa a chiave, Watt andò alla porta posteriore. Non avrebbe potuto facilmente suonare, o bussare, dal momento che la casa era immersa nel buio. Avendo trovato la porta posteriore altrettanto chiusa, Watto ritornò alla porta principale. Avendo trovato la porta principale ancora chiusa, Watt ritornò alla porta posteriore. Avendo trovato la porta posteriore stavolta aperta, oh non spalancata, ma chiusa, come suol dirsi, con un semplice lucchetto, Watt fu in grado di entrare in casa. Watt fu sorpreso di trovare ora aperta la porta posteriore, chiusa solo un momento prima. Gli sovvennero per tale caso due spiegazioni. La prima era questa, che la sua competenza di porte chiuse a chiave, così di rado fallace, era risultata tale in quell'occasione, e che la porta posteriore, quando l'aveva trovata chiusa a chiave, in realtà non lo era per niente. E la seconda era questa, che la porta posteriore, quando l'aveva trovata chiusa a chiave, in effetti lo era, ma che era stata aperta in un secondo momento, dall'interno o dall'esterno, da qualcuno, nel mentre che Watt era impegnato ad andare, avanti e indietro, dalla porta posteriore a quella principale, e dalla porta principale a quella posteriore."

A questo punto la persona a cui sto leggendo, che stava ascoltando attentamente dice:
- è la seconda!
Io rimango spiazzato. Mi sarei aspettato qualsiasi commento- "è brutto", "è bello", "l'ha scritto un pazzo", "sei brutto", "sei bello", "sei pazzo", eccetera - ma mai e poi mai un'osservazione "logica". Allora mi è sembrato di stare in un film di Nanni Moretti (in uno tipo Ecce Bombo- "siamo a Roma, non a Milano: "cacare", non "cagare", la "fica", non la "figa", "sta bene" non "sta d'un bene"; o Palombella rossa: "ma come parla?? le parole sono importanti! chi parla male, pensa male, e vive male!"), e mi è venuta voglia di urlare come avrebbe fatto lui: "Perché??? perché la seconda??? come fai a dire che è la seconda?? ma soprattutto perché senti il bisogno di dire che è la seconda??? Non c'entra niente!!!". 

Oltretutto il pezzo finiva così: 
" Di queste due spiegazioni Watt pensò che preferiva l'ultima, in quanto era la più bella."

- Ecco, ti ho detto che era la seconda.

venerdì 1 luglio 2011

Rumori.

è un mondo dannatamente rumoroso questo. Tant'è che stavo provando a dormire e invece non ci riesco, per varie manifestazioni dello stesso motivo: il rumore. La mamma non può fare a meno di urlare al figlio che sporca ogni posto in cui va (due volte per altro, come se lo volesse dire ad ogni orecchia: "dovunque vai sporchi! dovunque vai sporchi!"); i preti, innomediddio, non possono fare a meno di far suonare quelle dannate campane ogni quarto d'ora; la tortora esibisce continuamente le ristrette capacità del suo apparato fonatorio con un  "u uuu u, u uuu u, u uuu u" perpetuo; il vicino è convinto che a tutto il quartiere piaccia sentire la musica che piace a lui e quando piace a lui.
Comunque il rumore più fastidioso è quello dei semafori. Lo so, i semafori non dovrebbero far rumore. Fatto sta che oramai il verde non scatta, suona. Tu sei fermo perché il semaforo è rosso, magari hai pure fretta e aspetti impaziente il verde pronto a partire. Ma uno che suona il clacson appena vede il verde non può mancare. Io, come chiunque abbia una patente di guida (ma anche chi non ce l'ha, insomma tutti), so che quando è verde devo partire, e non parto controvoglia, non ho bisogno di qualcuno che mi sproni a partire. Allora, signore, perché suoni appena scatta il verde? Dimmelo. Vuoi far capire agli altri che ti sei accorto prima di loro? Sei il migliore, e la comunità sarebbe pronta ad ammetterlo, purché tu non suoni più quel dannato clacson. Guidare è stressante perché, oltre alle donne,esistono tizi come te.
Dunque, mentre non riuscivo a dormire ho pensato a come far desistere il signore dal suonare clacson appena vede il verde. Di seguito le mie proposte:

1. Entrare di soppiatto a casa sua durante la notte e acquattarsi vicino al suo letto. Appena suonerà la sua sveglia tirare fuori la trombetta da stadio e farla suonare nel suo orecchio ripetutamente. In seguito dirgli, anche se dubito che oramai riuscirà a sentire qualcosa (quindi scandire in un labiale chiaro) : "hai sentito? è suonata la tua sveglia, devi alzarti!"

2. Entrare con lui in ascensore. Lui arriverà al piano in cui deve scendere. A questo punto sbattere con forza i coperchi delle pentole in prossimità della sua testa, appena le porte cominceranno ad aprirsi, aggiungendo "signore, deve scendere".


Ho smesso di provare a dormire molto presto, quindi non ho elaborato altre proposte.

lunedì 27 giugno 2011

parole sì parole no

A volte mancano le parole per descrivere una situazione. No, non è l'inizio di un post che vuole narrare l'incredibile, anzi l'innefabile. Dico proprio sul serio, a volte non ci stanno le parole. In effetti mi sono espresso male, avrei dovuto meglio dire: a volte manca una parola. Ad esempio non c'è una parola che significhi "mi sono alzato alle sette", e non c'è perché non ce n'e mai stato bisogno. Non intendo dire che non ci sia una persona che in qualche epoca si sia alzata alle sette e che magari abbia sentito la necessità di esprimerlo, anzi. Intendo dire che questa persona, in questo caso, direbbe "mi sono alzato alle sette" senza pensare "cavolo se ci fosse una parola per dire "mi sono alzato alle sette" sarebbe molto meglio". Se fosse stato molto meglio, probabilmente quella parola sarebbe esistita. Perché le lingue sono così: se hanno bisogno di qualcosa ce l'hanno. Molte lingue sono morte perché quello che avevano non bastava più alle persone, perché altre lingue erano più utili o perché le persone a forza di usare le lingue le hanno un po' cambiate, a seconda di come erano più utili.
Comunque in una lingua il verbo è la parola più importante. Tant'è che non esistono lingue senza verbi (a parte il Kēlen, ma solo perché se la sono inventata apposta nel 1980. Non mi risulta che sia insegnata in qualche scuola o che qualcuno che vuole essere preso sul serio la usi). I latini l'avevano capito così bene che "verbum" significava "parola". Senza verbi non solo non si va da nessuna parte, ma non puoi neanche dirlo (puoi dire "tutti là no" o "tutti qui non là", ma non è la stessa cosa, è decisamente peggio). I verbi sono importanti perché ti dicono cosa sta succedendo, e, in questo mondo, succede sempre qualcosa. In qualsiasi momento stai facendo qualcosa. Per riuscire a non fare veramente niente devi morire, e allora non avrai bisogno di parole, né tantomeno di verbi. è per questo che i morti non parlano. Magari ti stai decomponendo, o puzzi, ma questa è una cosa che riguarda i vivi. Anche se sono molto importanti i verbi non ci sono tutti, anzi la maggior parte non esistono. Abbiamo scelto quelli più utili, per esprimere altre cose usiamo un po' più di parole.
Quando sono arrivati i pomodori e le patate dall'America in Europa, nessun europeo ha detto "finalmente sono arrivati i pomodori  e le patate", avrà piuttosto detto "che roba è? come si chiama?". In Itaia qualcuno avrà detto più o meno così "questi gialli [i pomodori tanto tempo fa erano gialli] e a forma di mela potremmo chiamarli pomi d'oro, ma per sbrigarci facciamo pomodoro, e quest'altre gialle...non sembrano niente, come le chiamavano in America? ah batata? vabeh allora noi la chiamiamo patata."; in Francia qualcuno avrà detto più o meno così "dunque queste gialle escono dalla terra e potremmo chiamarle "pomme de terre"...questi altri invece..come li chiamavano in Amrica? ah tomati? allora noi li chiamiamo tomatoe". In Inghilterra non si sono sforzati più di tanto e l'hanno chiamati tomato e potato.
Insomma se non c'è una parola e ne abbiamo bisogno ce la inventiamo oppure la rubiamo a qualche lingua che già ce l'ha. Quelle che non servono non ce le inventiamo, che tanto non ce le ricorderemo mai tutte. Per ricordarsele tutte bisognerebbe essere Funes, che però non è mai esistito veramente. Borges ha scritto la storia di Funes, che era un tale che si ricordava tutto. Poteva ripercorrere con la mente istante per istante la sua vita, non lo faceva perché gli sarebbe occorso tutto il tempo che aveva vissuto fino a quel momento. Funes si stupiva anche che ci fosse una sola parola per indicare un albero illuminato dalla luce di mezzogiorno e lo stesso albero illuminato dalla luce delle sette di sera. è sicuramente vero che quell'albero cambia a seconda della luce che lo illumina, ma Funes non si sarebbe stupito se avesse avuto la memoria degli uomini, che a volte non trovano neanche le parole che esistono.
Tutto questo per dire che l'altro giorno volevo "non scrivere", anzi stavo "non scrivendo", nel senso che mi stavo trattenendo dal farlo. Cioè che l'avrei fatto ma stavo appositamente non facendolo, quindi stavo proprio "non scrivendo". Ma se non ci sono verbi per dire le cose che uno fa (tipo per "lavarsi i denti" non c'è un verbo) figurati se ci sono per le cose che uno non fa.

Fatto sta che ne avevo bisogno.

Forse nel mondo di Funes esisterebbero tutte le parole del mondo (di Funes), quindi infinite parole e nessuno farebbe fatica a ricordarle. Ma poi sarebbero troppe, e sarebbero tutte uguali. Non lascerebbero neanche un piccolissimo spazio all'interpretazione di chi le legge, o chi le ascolta. Troppa definizione. Sarebbe funesto.

martedì 24 maggio 2011

Avventura di un blogger

Un blogger si sedette sulla sua sedia davanti al computer acceso, convinto a scrivere un nuovo post. Posò le mani sulla tastiera, sospirando. Ma subito si voltò verso sinistra, verso la finestra aperta e si accorse, con comprensibile disappunto, che gli mancava qualcosa di indispensabile per iniziare a scrivere. Eppure, lo avrebbe giurato, era lì fino ad un attimo prima, con lui- dentro di lui, possiamo dire. Che l'avesse smarrita in quel breve istante in cui aveva sospirato? O l'ha persa di vista quando si è voltato verso la finetra-e magari è uscita proprio da lì, dalla finestra aperta? Non sapeva spiegarsi come fosse accaduto, e soprattutto dove fosse finita. Il blogger non si perse d'animo. Superato il disappunto iniziale, si decise a ritrovarla (necessariamente:  non avrebbe potuto scrivere quello che aveva in mente fino a poco prima). Sicuramente era lì da qualche parte, non poteva essersi allontata molto. Si alzò e per prima cosa chiuse la finestra. Si sedette nuovamente, forse sarebbe tornata tra qualche istante, forse addirittura era lì e lui non se ne accorgeva. Per un attimo gli sembrò di vederla e posò subito le mani sulla tastiera. Stavolta non sospirò, ma poco dopo appiattì le labbra su una sensazione di disagio. Si accorse che lì proprio non c'era. E forse, non lo avrebbe giurato ma ora gli sembrava più che probabile, l'aveva persa ancora prima di mettersi a sedere la prima volta. Allora si alzò e andò a cercarla. Dov'era stato? L'aveva lasciata in cucina mentre faceva il caffè? La cercò, fra la polvere e la caffettiera. Forse sul letto mentre leggeva? Fra i cuscini non c'era, e non era neanche nascosta fra le righe del libro che stava leggendo poco prima, di cui rilesse, inutilmente, le ultime pagine. Non l'avrà lasciata in bagno? Sì, forse mentre si faceva la barba (o ancora prima sotto la doccia?). Ecco- si ricordò- l'ultima volta che l'aveva vista nitidamente era proprio sotto la doccia. Vi entrò di nuovo e riaprì l'acqua. Nudo e pulito sotto la doccia che aveva usato da poco, ingobbito con il pollice el'indice della mano destra che incorniciavano il mento, e nessuna traccia di quello che cercava. Eppure prima era lì, nella doccia, di questo ne era sicuro. Almeno quanto lo era del fatto che ora, lì, quello che stava cercando non c'era più. Pensò che, forse, l'aveva persa proprio lavandosi per la prima volta. Ce l'aveva prima di entrare nella doccia e poi se l'era sciacquata via, e ora aveva peggiorato la situazione, facendosi di nuovo la doccia. Si ricordò della finestra, l'aveva chiusa! E se fosse davvero uscita di lì proprio mentre stava per scrivere? Si precipitò ad aprire la finestra. Si affacciò. Neanche a dirlo, non la vide. Accese lo stereo e riascoltò le ultime canzoni (che si fosse nascosta in una di loro?). Note note, niente di nuovo. Rassegnato si buttò sulla sedia, davanti al faccione quadrato del computer. Sospirò. Si guardò di nuovo intorno, a destra e a sinistra,verso la finestra, ma senza la speranza di ritrovare ciò che cercava. Si rese conto che l'idea che aveva per quel post era uscita definitivamente da lui, dalla sua casa e forse dal mondo. Non c'era più e inutile era stato cercarla dappertutto. Quindi posò le mani sulla tastiera, sospirò, e iniziò a scrivere.

lunedì 16 maggio 2011

sguardi randagi

Era mezzanotte passata quando una ragazza,sui vent'anni, chiudeva il garage senza badare al rumore che spargeva nella notte. Il garage era in fondo a una ripida discesa e ora le toccava risalire, stanca com'era, con tutte le borse che aveva. Arrivò in cima, sulla strada, con il fiatone e pensò che la vista dei cassonetti della spazzatura - che ancora non aveva guardato, ma che sapeva essere lì davanti, dall'altra parte della strada- non era la giusta ricompensa. Li guardò come per cercare una conferma. Che non arrivò. Stavolta infatti c'era un gatto, piccolissimo, nascosto per metà dietro uno dei cassonetti. L'altra metà guardava la ragazza, la quale a sua volta fissava metà muso, metà corpo e la zampa del gatto. Per la verità non sembrava che stesse nascondendosi, ma che stesse aspettando qualcuno. Questo almeno pensò la ragazza guardando quel mezzo sguardo lanciato da dietro al cassonetto. Il gatto allora, piegando il collo, fece sporgere tutto il muso, lasciando il resto del corpo per metà nascosto. La ragazza per un attimo pensò che aveva ragione, che quel gatto aspettava in disparte qualcuno che ora era arrivato e che quindi ora rinforzava lo sguardo mostrando entrambi i piccoli occhi come per dire "eccoti finalmente... sono qui, dietro il cassonetto". Per un attimo pensò questo, mentre si riconosceva in quello sguardo. Ma subito si convinse che quello era un gatto randagio, che se si fosse avvicinata sarebbe subito scappato. Superò i cassonetti e si diresse verso casa. Dopo pochi passi si fermò. Il gatto era rimasto lì, aveva solo rialzato il muso, nascondendolo di nuovo per metà. La persona che stava aspettando non era quella ragazza, che se n'era andata, e lui si era rimesso ad aspettare. La ragazza tornò indietro e lo ritrovò lì, con lo stesso sguardo, ad aspettare. Ora era molto vicina al gatto, e si meravigliò che non fosse scappato sentendo dei passi che si avvicinivano. Provò diffidente ad accazzerarlo. Il gatto non si mosse mentre la mano della ragazza si avvicinava, e appena lei toccò il suo muso, il gatto si sdraiò per terra iniziando a giocare con le dita della ragazza, dando piccoli morsi e afferrandole con le zampe. La ragazza, meravigliata, si piegò sulle ginocchia e rimase per un po' a giocare con il gatto alla luce fioca di un lampione che a stento illuminava quella strada deserta, con le borse ancora in spalla, piene di stanchezza, ma con il sorriso sulle labbra. Decise di andare via con la speranza che il gatto la seguisse, almeno per alcuni passi. Si alzò, il gatto rimase per un attimo disorientato, poi si rimise in piedi pure lui e forse guardò la ragazza andarsene. Lei guardò più volte indietro, ricercando quello sguardo che conosceva. Voleva che il gatto la seguisse. Ma tornò a casa, randagia.

giovedì 5 maggio 2011

sottofondo

L'altroieri, alla feltrinelli di Roma sulla via Appia, c'era la presentazione del libro più dvd de 'La pecora nera'. Fra le altre cose si è parlato del fatto che siamo sempre accompagnati da un suono, una musica di sottofondo o anche un semplice ronzio, e a volte neanche ce ne accorgiamo, perché è un rumore costante, e ci facciamo l'abitudine: quanti di noi presenti alla presentazione, per esempio, si sono accorti del rumore del condizionatore della feltrinelli? Eppure, facendoci caso, si sentiva anche quando Celestini ha ricominciato a parlare del suo film. Un suo amico gli ha raccontato che nell'albergo dove alloggiava, a New York, si era accorto che in tutte le sale e i corridoi c'era un ronzio costante. Nelle camere c'era un interretture per regolarne il volume, o spegnerlo. Ma in tutto l'albergo c'era continuamente questo ronzio, che serviva per non far sentire il traffico esterno. Cioè tu senti il ronzio, ti ci abitui e non lo senti più, però intanto il ronzio ha ovattato i clacson e i motori di fuori.
Un paio di anni fa, ero dal dentista. Io avevo finito, mentre mio padre era ancora sulla poltrona del paziente. Quando entrai vidi lui (seduto e con uno specchietto in mano intento a vedere la differenza tra il suo dente nuovo e tutti gli altri), il dentista e l'assistente erano in piedi, vicino alla poltrona. C'era qualcosa di familiare nella stanza, e non mi riferisco a mio papà. Per un attimo stettu in piedi a fissare qualcosa a caso cercando di capire perché quella sala mi faceva pensare a quando andavo a scuola, da piccolo, accompagnato da mia madre. Ci misi un po' per riuscire a sentire che, non so da dove, proveniva a bassissimo volume una canzone che ascoltavo sempre, appena entrato nella macchina di mamma e dopo aver messo la solita cassetta. Era un suono lievissimo, quello che basta per annullare un silenzio che dal dentista non deve esserci. Ci misi un po' a riconoscere 'my name is luka' di Suzanne Vega. In quel momento ascoltavo la canzone e i miei pensieri, mentre le chiacchiere del dentista e dell'assistente erano il sottofondo. Fino a quando la voce dell'assistente non disse il mio nome. L'attenzione si spostò dalla canzone alla sua bocca, che però aveva finito di parlare. Mi era parso di cogliere un tono interrogativo. Ma cosa mi aveva chiesto? Forse vedendomi concentrato, magari fissando mio padre o il dentista o lei stessa senza accorgermene, mi aveva chiesto un parere su qualcosa. Ma su cosa? Cosa dovevo rispondere? Dissi solo: "beh, c'è anche una bella canzone". L'assistente e il dentista mi guardarono perplessi. Forse loro non la stavano ascoltando.

martedì 12 aprile 2011

meritocrazia

L'altra notte, circa sei mesi fa, ho perso il cellulare: mi è caduto dalla tasca mentre correvo in una via vicino casa mia, nella periferia di Roma. Tornato a casa mi dicono che ha chiamato un ragazzo che diceva di aver trovato il mio cellulare per strada. Faccio il mio numero e risponde il ragazzo, con una voce cupa e nasale ma vivace: "l'ho trovato per terra e l'ho preso..io mo' sto a trastevere se vòi venì s' encontramo qua...sennò quanno te pare...me trovi all'alimentari..c'hai presente quello là..eh sì, bravo..quello! domani sto là tutto er giorno". Sono stato fortunato, penso. Non tanto per il valore del cellulare che sarà sulla ventina di euro, ma perchè non mi dovrò abituare a un cellulare nuovo, non dovrò recuperare i numeri e perché trovare uno che trova il tuo cellulare e te lo ridà fa sempre piacere. Il giorno dopo vado in bici all'alimentari pensando a come farò a riconoscerlo e a cosa dovrò dire, ma mi viene in mente solo una battuta ("a me fai mezz' etto di cellulare grazie"). Non so come fare a ritrovare il ragazzo quindi chiedo al primo non cliente dell'alimentari che vedo: il cassiere. "ciao, io ieri sera ho perso il cellu..", "ah, sei te". Rimango un attimo disorientato: dall'arroganza e dal tono della voce, che non era sicuramente quella di ieri sera. In quell'attimo lui tira fuori il mio telefono e lo lascia cadere sul rullo dove si mettono i prodotti da far passare alla cassa. "Sei stato fortunato, eh. La prossima volta devi sta più attento" aggiunge. "Ammazza quanto sei stronzo", penso mentre prendo il cellulare. "Ringrazia da parte mia il ragazzo che l'ha trovato" dico.

domenica 10 aprile 2011

psicometria

Da un po' di tempo quello che mi appartiene del mondo sensibile riguarda le forme geometriche. A partire dal "panorama" visibile dalla finestra di casa: i palazzi sono parallelepipedi perfetti, illuminati dal sole su una sola facctaia che rischiara un lato: dallo spigolo in poi il colore è più scuro; ma più che i palazzi-80% del panorama- mi catturano le decine di parabole sulla loro cima: perfetti cerchi bianchi, ora affascinanti per quanto brutti. Della caffettiera: la base ottagonale, l'imbuto circolare, la testa circolare ai piedi e col cappello di nuovo ottagonale. I quattro cerchi del gas e la simmetria delle fiamme accese. La caffeina (se è lei) che forma -sulla superficie piatta, nera, omogenea, circolare del caffè in tazzina- spirali; del fumo solo quelle. Dei panni appesi la simmetria dovuta alla simmetria del corpo: anche la natura è geometria, dalle pietre al DNA. Non quello che c'è fuori ma i rombi dell'inferriata o i quadrati minuscoli della zanzariera, lì si ferma la mente se la vista procede. Sarà colpa delle lezioni sul formalismo di Fritz Lang. Sarà colpa del mondo non sensibile: fuori tutto è geometria e tutto ha un disegno. Fuori.
L

lunedì 21 marzo 2011

scarpe

Prima o poi arriva il momento in cui le scarpe devono essere cambiate (arriva per chi non cambia scarpe ogni settimana). Perché non sono più scarpe: sono rotte, scucite, entra l'acqua quando piove, il piede è traballante e ogni passo è una scommessa. è arrivato quel momento e hai comprato queste scarpe , e ora se ne devono andare perché quel momento è tornato. In questo momento provi un odio rasseganto, levigato dall'abitudine e dalla necessità. Eri legato a queste scarpe, come anche a quelle prima e, speri, a quelle che comprerai. Ti ostini a non buttarle ma l'hai già fatto, da quando tornavi a casa con i calzini bagnati sulla punta e sul tallone a causa delle fessure. Comprerai delle scarpe nuove che diventeranno vecchie, cui ti affezionerai e che butterai; per far conoscere altre scarpe ai piedi bagnati.

martedì 15 marzo 2011

Sai che ti dico Homo sapiens?

Ti sta bene morire così!
Hai anche la presunzione di chiamarti sapiens!
Basi la tua sopravvivenza su energie che non riesci a controllare.
Pensi di essere così intelligente da prevedere tutto e da poter costruire centrali nucleari nei luoghi più sismici del pianeta.
Poi quando qualcosa va storto cominci ad avere paura della natura, incertezza per il futuro, e ritorni sui tuoi passi.
Non vedi quanto è patetico preoccuparti della sicurezza della tua centraletta nucleare, quando basta che una sola in tutto il pianeta esploda per causare la tua estinzione?
Pensi che l'atomo si fermi alla dogana, e allora devi proprio estinguerti H. sapiens.

F

sfatalismo

Sto diventando fatalista: c'è un destino predeterminato che decide come vanno le cose, cioè, non è che le decide, le cose vanno così punto, e tu non puoi farci niente. Puoi farci qualcosa, ma il destino già lo sapeva, è per questo che l'hai fatta. A volte sono talmente certo che sto per fare una cosa, che mi permetto di non farla. E succede lo stesso. Fame saziata senza mangiare, sonno recuperato senza dormire. Il fatto, o il fato, è che mi sento sempre più un pezzo degli scacchi, so come muovermi (se sono il pedone mi muovo di un passo in avanti, se voglio far secco qualcuno lo faccio con un passetto in diagonale come uno sgambetto; eccomi alfiere e taglio, per quanta distanza voglio, se mi è concesso dagli avversari, la scacchiera da un angolo all'altro; o eseguo strane traiettorie a L, verticale o orizzontale, se sono un cavallo) ma non sono io a muovermi. è il destino scacchista; e il suo disegno non mi è per niente chiaro. Ma la scacchiera ha tremato e il tavolino si è spostato di 14 cm. E chissà, lo scacchista è caduto dalla sedia. Stavo diventando fatalista.
L

lunedì 14 marzo 2011

I

1. Bisogna avere un lettore immaginario quando si scrive? Chi è il lettore immaginario che ho in mente quando scrivo? è uno e uno solo? è identificabile? sono io? mi scrivo addosso?

2. "A questa terza interpretazione non so se se m'arrischierò a farne seguire una quarta, che s'addirebbe assai bene alla modestia quasi divina di Menard: alla sua rassegnata o ironica abitudine di propagare delle idee che erano l'esatto rovescio di quelle preferite da lui". ( Finzioni di J.L.Borges). Modestia impedisce di trasandare in vanità ed orgoglio. E allora propagando idee contrarie a quelle preferite da lui, il modesto, non preferisce (non porta avanti, non mostra) una persona che non è lui? Non dice qualcosa che lui non direbbe? Non compie gesti che non lo rappresentano? Credo che nel modesto questa abitudine sia rassegnata, involontaria. E dopo il gesto rassegnato, il fastidio, e lo smarrimento: sono io? L'ironico esprime idee contrarie alle sue per rendere in maniera più efficace il suo vero pensiero?


3. Quando si pone una domanda è bene non aspettarsi una risposta.
Sono seduto in macchina, parcheggiato da un po'. La macchina parcheggiata davanti a me sta per uscire: ho avuto tempo di assistere al colloquio fra tre persone che hanno appena finito di parlare, si sono salutate e due di loro sono ora salite in macchina. Una terza macchina (uguale alla mia) mi si accosta. Il suo labiale inequivocabile dice "esci?", il mio, equivocabile, dice "esce quello davanti a me" e il mio indice prova ad aiutare indicando la macchina che ho di fronte. La macchina che mi si era accostata alza la mano come per ringraziare e se ne va. Sono stato scortese?
L

giovedì 10 marzo 2011

Reminiscenze 2

L'altro giorno ero in macchina e pensavo. A quell'ora del primo pomeriggio, su quella strada della periferia di Roma non c'è quasi nessuno e io guidavo con la mente un po' alla strada e un po' per conto suo (ogni tanto pensi senza troppa attenzione: segui il filo dei pensieri e magari sobbalzi scoprendoti ad un considerazione troppo ardita: questa è la mente ''un po' per conto suo''. Ogni tanto guidi senza troppa attenzione :  segui la linea della strada e magari sobbalzi ad una buca che non avevi visto: questa è la mente ''un po' alla strada'').
Insomma guardando allo specchietto retrovisore, quello posto all'interno della macchina al centro del prabrezza, retrovedo - oltre alla strada che ho appena percorso- il lato destro del mio viso. Senza volerlo mi soffermo, forse perché il sole la schiarisce con insistenza, sulla guancia e in particolare sulla linea rossa che le fa compagnia da una dozzina di anni. Questione di un attimo, ma la miccia dei ricordi è stata innescata. Ricordo con precisione quello che è successo quel giorno dell'estate del '98: avevo otto anni e giocavo a pallone nel campetto di un centro estivo. Rincorrevo il pallone che dopo pochi secondi avrebbe battuto inesorabilmente contro la rete che delimitava il campo decretando un'esiziale rimessa laterale per la squadra avversaria. Il piccolo eroe che era in me pensò di impedire a tutti i costi il contatto tra la rete e il pallone, a costo di schiantarsi contro la rete. Il piccole eroe si schiantò, con la guancia, su un pezzo di rete che, liberatosi dalla maglia di rombi che il resto della rete formava e di fatto cessando di essere rete ma diventando un ben più temibile filo appuntito (fil di ferro ricoperto di plastica?), mi graffiò profondamente la guancia. Caddi a terra e il piccolo eroe che era in me, tutt'altro che sopito, chiese "è uscita la palla?". Ricordo anche la corsa al rubinetto per sciacquarmi il viso, i vari "aiha" dei coetanei che mi circondavano, la tardiva consapevolezza che quello non era ''un graffietto'', il ghiacciolo che mi diedero al bar del centro estivo (un liuk, "neanche me lo posso mangiare dopo,non mi piace" pensai) da mettere sulla guancia fino all'ospedale, e i 4 punti che mi misero. Non ricordo nessun altra partita a quel campetto.
La cicatrice sulla guancia mi collega a quella sulla sopracciglio. Anche in questo caso ricordo tutto. Il punto della piscina in cui ero, il mio braccio sinistro che si allungava a strattonare il costume dell'avversario, il rumore secco, subacqueo, dell'urto tra il gomito dell'avversario e il mio sopracciglio. Lo stordimento, lo stupore sul volto dei miei compagni di squadra, le scuse dell'avversario. E anche qui la corsa all'ospedale. Sei punti.
Guidando con la mente un po' alla strada e un po' per conto suo penso che se dovessi immaginare la memoria, me la immaginerei come un insieme di segni. Che ogni ricordo è una cicatrice.
E sobbalzo: una buca.
L